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Categoria principale: Numeri Rassegna Siciliana
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"Banditi", "Briganti", rete di manutengoli-criminali impuniti e poteri legali: tra Ancien Règime e Stato unitario
Le campagne siciliane degli anni Settanta del XIX secolo erano in preda alle azioni criminose di varie bande armate. In particolare, sulle Madonie imperava pressoché incontrastata quella diretta dal duo Rocca-Rinaldi. Si trattava di un raro esempio di gruppo armato di stampo delinquenziale guidato da due capi. Le popolazioni madonite erano terrorizzate da questa comitiva armata. La stampa e la pubblicistica del tempo, secondo uno schema che verrà seguito anche nel Novecento, sottolinearono ed enfatizzarono oltre il lecito il ruolo ed il potere di una banda che, composta da una quindicina o da una ventina di unità, avrebbe assoggettato istituzioni, potentati politici ed economici, intere popolazioni. Poteva uno sparuto manipolo di delinquenti assoggettare parecchie decine di migliaia d’individui che vivevano su quel territorio? Era possibile che importanti funzionari dello Stato, influentissimi baroni e gabelloti non trovassero altra via che subire in silenzio la volontà ed i disegni criminali della "gang" e, come unica scappatoia, non trovassero di meglio che allearvisi occultamente, divenendone complici?
Autorevoli voci si levarono verso le supreme autorità dello Stato, invocando "misure energiche". Il deputato La Porta, stigmatizzando l’inanità del governo, disse: " i proprietari che sono le vittime dei malfattori, i proprietari che corrispondono le imposte, sono in diritto di pretendere che il governo, il quale le riscuote, adempia il proprio dovere"(1). Ma intanto i rapporti di prefettura parlavano di una realtà in gran parte diversa dalle superficiali letture fatte da altre e autorevoli fonti istituzionali e "mass mediologiche" (così definiremmo oggi la stampa, i libri di allora ecc.). Un autorevole storico, Giuseppe Carlo Marino, nel descrivere ed analizzare quelle vicende scrive: "Se interpellati sulle vicende mafiose che si svolgevano sulle loro terre, i proprietari e i parassiti borghesi con i quali erano in combutta (i gabelloti) continuavano spudoratamente ad invocare compassione dichiarandosi vittime della mafia e dei briganti e accusando lo Stato di essere incapace di proteggerli"(2). Già la mafia. Ma cos’era la mafia? Cosa s’intendeva indicare con tale termine? Con tale neologismo si voleva designare una realtà sociale e criminale "nuova", nata in seguito all’abolizione del regime feudale da parte del Regime borbonico.
Si trattava di associazioni trans-classiste, che abbracciavano i vertici sociali con i rami più bassi delle comunità locali, tese al perseguimento di finalità di arricchimento o di potere attraverso condotte e strategie legali-illegali perseguite a loro volta mediante il condizionamento violento, illecito a fini privati delle pubbliche istituzioni, degli aspetti della vita economica e sociale. Esse si sostanziavano in un anomalo e perverso intreccio tra componenti criminali (con compiti meramente esecutivi ed esterni alle istituzioni statuali), da un lato, e soggetti operanti all’interno di queste ultime e nei rami ufficiali e legali del Potere, dall’altro. Se si andava ad analizzare meglio la loro strutturazione si poteva notare come accanto alle bande etichettate come brigantesche e responsabili di ogni sorta di crimini si affiancassero altri soggetti che contemporaneamente commettevano dei delitti frutto di violenze ed intimidazioni contro la persona o la proprietà ma che, a differenza dei "banditi"(con i quali non disdegnavano di riunirsi per comuni finalità delittuose), riuscivano a vincere lo scontro con l’apparato repressivo dello Stato, sfuggendo alle conseguenti condanne e sanzioni penali. Non infrequentemente questi ultimi erano partecipi dei proventi delittuosi dei banditi loro complici e protetti. Si trattava, dunque, del "malandrinaggio occulto" denunciato dal prefetto Rasponi e da lui identificato con la mafia. In realtà, i funzionari dello Stato italiano si trovavano di fronte a delle tipologie criminali e di potere che da tempo immemorabile avevano connotato e permeato la vita politica, economica e sociale della Sicilia. Parecchi bandi e prammatiche regie della Sicilia spagnola e borbonica avevano nel corso dei secoli denunciato in modo quasi ossessivo (a testimonianza della vischiosità e persistenza del fenomeno) l’esistenza di tali complessi aggregati delittuosi dediti a rapine, abigeati, omicidi, estorsioni, sul fronte dell’illecito, ed al controllo intimidatorio della vita politica, del mercato delle gabelle, ecc. Ad una rete popolare di sostegno della struttura esecutiva, ad alto allarme e pericolosità sociali (banditi, briganti, latitanti ecc.), si affiancava una rete di complici impuniti ed occulti. Al vertice di questo sistema erano individuabili potenti baroni, membri dell’alta e media borghesia. Le Prammatiche del Cinquecento e del Seicento individuarono e sanzionarono penalmente il comportamento di auxiliatori, recettatori e fautori che non si limitavano solamente a nascondere e foraggiare "banniti et forgiudicati", ma che erano partecipi anche dei furti, delle estorsioni e di altri delitti commessi da questi ultimi. Ed in tali protezioni si ravvisava la causa fondamentale delle gravi difficoltà incontrate nel catturare tali delinquenti. Fatto grave e caratterizzante tali aggregati erano le complicità occulte godute in alto loco. Per questo motivo molto dure erano le pene previste ed a carico dei capitani d’arme, dei baroni inseriti in questo sottile ed occulto gioco di protezioni. Ma è da sottolineare la sorprendente persistenza nel tempo del modello rappresentato da tali aggregati delittuosi e di potere. Oggi il Procuratore Aggiunto Sergio Lari, in occasione di un’importante retata antimafia, ha puntato l’indice sulla rete di manutengoli che ha permesso a gregari e boss mafiosi latitanti di continuare ad operare indisturbatamente (per la legislazione d’Ancien Règime costoro potevano essere etichettati come semplici "banniti", fatto che genererà delle confusioni terminologiche sul tema contemporaneo del rapporto tra "banditismo e mafia", separando artificiosamente due componenti di un unico fenomeno, cioè quella degli affiliati "alla macchia" da quella dei manutengoli-criminali impuniti operanti "alla luce del sole"): "Bisogna colpire la rete di protezione che assicura e permette ai latitanti di godere dei vantaggi della latitanza". Questa tipologia associativa di tipo criminale, sociale, economico e di potere aveva subito diversi etichettamenti giuridici e nel linguaggio comune, prima che nascesse il termine che tanta fortuna ha riscosso a livello universale, e cioè "mafia". La legislazione d’Ancien Régime contro i banniti ed i loro complici, le diffidatio, la vis pubblica, le conventicole, le quadriglie, le lotte tra "bandos", e quella borbonica ed ottocentesca sulle comitive armate, "l’associazione di malfattori" comprendevano una vasta gamma di reati e di eterogenee realtà criminogene(3). Ma talora ed in alcuni contesti storico-sociali all’interno di questo "labelling" (etichettamento) giuridico si sanzionavano comportamenti ed associazioni tipologicamente ed ontologicamente rientranti in quell’ambito fenomenologico che nell’Ottocento verrà denominato "mafia". Lacchè ha fatto rilevare il rapporto se non di filiazione, di contiguità giuridica tra la categoria penale di conventicola e quella dell’associazione di malfattori. Quest’ultima aveva un significato più pregnante ed esaustivo rispetto a concetti normativi desunti dalla scienza penale e dalla criminalistica d’Ancien Règime: "Probabilmente la grande novità di questa figura consiste (…) proprio nella considerazione di taluni fenomeni associativi, in primis quello brigantesco; l’associazione riesce, almeno a livello teorico, ad unificare una complessa e fitta trama di attività attraverso il ricorso al carattere dell’appartenenza. Ma sarebbe soprattutto servita, nella sua potenziale estensibilità a qualificare altri fenomeni, dall’associazione di stampo mafioso (…) alle società anarchiche e politiche, ritenute sovvertitrici dell’ordine pubblico"(4). Ma facciamo un passo indietro. Fenomeni (al tempo stesso criminali, di potere, economici, culturali e sociali) con la loro tipica tripartizione funzionale e strutturale (latitanti impuniti-manutengoli di estrazione medio-bassa dai connotati occultamente delinquenziali strettamente ed organicamente intrecciati con ambiti istituzionali e del potere legale- esponenti delle istituzioni e dei ceti altolocati) finalizzati a mettere in atto strategie di potere e di arricchimento paralleli a quelli ufficiali e leciti (facenti capo ai nascenti Stati moderni), attraverso metodi intimidatori e violenti (in contrasto col monopolio della violenza avocato dal re e dai suoi supremi tribunali), sono presenti sin da quando "il potere statale nel corso del XVI sec. (a livello puramente tendenziale) progetta una riconquista dei territori sottoposti solo formalmente al suo dominio politico, riunificando entità e forze disperse"(5).
Si trattava di strutture associative di tipo criminale in pieno contrasto con l’ethos normativo e l’ordinamento costituzionale messo in piedi dal sovrano, dal ceto dei giuristi e dei funzionari di Stato di cui questi si circondava. Infatti, la creazione di un corpo burocratico moderno era uno degli aspetti peculiari e fondanti dei processi di centralizzazione del potere in età moderna.
Scrive Mario Caravale : "i nobili riconoscevano di derivare le loro giurisdizioni non già dalla consuetudine, dall’uso nato dalle necessità della vita associata e continuamente rispettato, bensì dalla volontà regia"(6).
La nascita dello Stato Moderno
I processi di centralizzazione politica dei sovrani moderni e la nuova impalcatura degli Stati servivano a garantire, e questo era uno dei principi legittimanti degli stessi, alcuni beni fondamentali della società e dell’individuo, come la sicurezza personale e patrimoniale dei sudditi da ogni forma di aggressione e da ogni insidia che provenisse da ambienti non in linea con l’ordo socialis e politico giuridicamente imposto dal Principe. Non erano più tollerati gruppi armati privati (o comunque quelli che non avessero il benestare del re) al servizio di ricchi ed influenti personaggi o di qualsiasi altro soggetto al di fuori di quelli previsti e ritenuti regolari dall’ordinamento politico-giuridico del tempo. Contravvenire a tale disarmo generale, imposto dal sovrano, avrebbe significato incorrere nel "crimen lesae majestatis" è, in particolare, in quello di "militiae privatae". Il sovrano non ammetteva strutture e poteri concorrenti al proprio che tendeva a porsi al di sopra di tutti i baroni e che si dichiarava giuridicamente e sostanzialmente indipendente dai poteri universalistici tradizionali, e cioè Papato ed Impero. Ma ampie sezioni delle popolazioni soggette e suddite dei vari re europei ed italiani non erano mature a subire un processo di "State-Building" in chiave nuova, moderna ed in parte diversa dal passato (anche se con gli assetti tradizionali normativi, sociali bisognava scontrarsi e fare dei compromessi). I fenomeni politici centralizzatori messi in atto dai vertici dello Stato erano tutto sommato relativamente rapidi e cozzavano con una realtà sociale e territoriale caratterizzata dall’esistenza di piccoli e influenti poteri diffusi ed anarcoidi (con in prima fila il baronato). In seguito a scontri militari tra due e veri e propri schieramenti, che vedevano attestate, da un lato, le truppe fedeli al sovrano costituite da mercenari e baroni (questo specie in una prima fase), e le milizie (in quel momento "regolari") dei vari feudatari, dall’altro, si determinava l’esito dei successi o degli insuccessi nell’intraprendere questa nuova strada politica.
Nella Sicilia del Trecento assistiamo allo sfaldarsi del potere centralizzato del Regnum costruito pazientemente dalla monarchia normano-sveva che aveva delle basi ancora feudali ma con contenuti organizzativi e costituzionali senz ‘altro in anticipo rispetto alle successive e più mature costruzioni ed assetti dello Stato moderno. I più potenti dignitari e signori di Sicilia avevano fortemente compresso l’autorità regia, aprendo la strada a potentati locali di tipo meramente feudale.
Scrive Caravale che: "negli ultimi anni del secolo XIV aveva cominciato a sfaldarsi l’assetto signorile dell’isola che aveva diviso il territorio siciliano in quattro grandi domini comitali - tenuti rispettivamente dagli Alagona, dai Chiaramonte, dai Ventimiglia e dai Peralta - e aveva collocato in posizione del tutto marginale la potestà monarchica, limitandone l’autorità alle sole terre demaniali"(7).
Con l’avvento dei Martini comincia un processo di recupero delle potestà centrali e dei territori usurpati dai nobili. Fonte di ogni giurisdizione diviene il sovrano, e, quindi, l’assetto normativo, costituzionale statuale.
E’ questo un trend di carattere generale in gran parte dell’Europa (specie quella occidentale). Nel campo della giustizia (civile, amministrativa, penale) vengono istituiti dei supremi organi centrali (Tribunale del Real Patrimonio, la Regia Gran Corte, il Concistoro ecc.) cui devono far capo, e cioè in posizione gerarchica subalterna, tutte le corti locali e le "basse" giurisdizioni (che saranno molteplici ma, comunque, in un certo qual modo interne ed assimilate nella grande impalcatura statuale). Nonostante nei secoli successivi tali dinamiche centralizzatrici avessero conosciuto dei progressi e delle fasi di stallo o arretramento, tale principio non verrà più definitivamente messo in crisi od accantonato. Ormai era stata aperta anche in Sicilia la strada che, attraverso una contraddittoria evoluzione, avrebbe portato ad una più compiuta e moderna realizzazione di modalità e formule organizzative politico-territoriali. Nel Cinquecento si va verso la creazione di una "milizia nazionale" che tendeva a superare il ruolo militare del baronato, il quale diveniva parte integrante dell’ordinamento fondamentale del Viceregno(8). Era un’altra vittoria dello Stato nella dura lotta verso la sanzione ufficiale di chi dovesse essere il titolare ed il detentore supremo del monopolio della forza. Attratta nella Palermo curtense, la nobiltà reagirà ai progetti dei funzionari e dei viceré spagnoli tendenti ad esautorarla dalle supreme cariche dello Stato. Il baronato, parte fondamentale della classe dirigente isolana (si pensi al suo ruolo costituzionale nel Parlamento siciliano), se da un lato sembrava accettare la vittoria militare e politica dei Re di Spagna, dall’altro maturava delle forme sorde ed occulte di resistenza e di difesa dei propri privilegi e del proprio potere. Mentre in altri Stati europei, sia pur gradualmente, le élitès sociali ed economiche accettavano il potere sovrano, giurandogli una formale e più ancora sostanziale fedeltà,in Sicilia l’effettività di tale processo stentava ad affermarsi, in favore di interessi particolaristici e privati, spesso dai connotati criminali.
L’opposizione mafiosa dei baroni e delle comunità locali contro lo Stato
Il baronato siciliano, nonostante fosse stato destinatario di una delega locale, in merito all’amministrazione legale e tramite magistrati ad hoc, di poteri di giustizia, fatto che gli dava ampie facoltà di dominio e controllo sulle comunità soggette, comunque, esercitati in nome del re, cercò degli strumenti che gli consentissero di esercitare, arbitrariamente ed al di fuori di qualsiasi prescrizione e statuizione normative, la violenza a fini di potere ed economici. E tutto ciò al di là di ogni regola o legge dello Stato. Si veniva a creare un ordinamento materiale dell’esercizio della forza che naturalmente entrava in conflitto con quella sorta di grundnorm (norma costituzionale fondamentale ed originaria di uno Stato, secondo Kelsen) che faceva del sovrano e degli apparati pubblici la fonte originaria e legittimante di ogni giurisdizione e l’archè legittimo e legale in materia di uso esclusivo della violenza da loro stessi preteso e formalmente imposto a tutti i sudditi. In Sicilia, come in Italia ed in Europa, almeno inizialmente, comunità locali e baroni diedero vita a forme di protesta, di non accettazione dell’ordo Principis. Ad esempio, in Spagna le guerre private continuarono nonostante la forte politica di centralizzazione che si riconosceva nell’operato dei Re Cattolici ed i loro successori con il loro corpo scelto di funzionari e burocrati di professione (tratti principalmente dal ceto dei letrados), in funzione antifeudale ed anti-signorile. Eserciti feudali persistevano alle dipendenze di alcuni grandi signori in perenne lotta fra loro. Progressivamente, come già scritto, lo Stato intese eliminare queste contraddizioni. Si provvide a smantellare (almeno in via tendenziale) una tale tipologia di strutture militari, legittime in età medievale. Ma i baroni preferirono servirsi illegalmente di sicari, banditi, criminali e facinorosi impuniti di ogni risma per le loro strategie di potere. Scrive Bartolomè Benassar a proposito di tale situazione nella penisola iberica tra Cinquecento e Seicento: "Signori meno prestigiosi si abbandonavano senza scrupoli a guerre di clan ricorrendo ai servigi di sicari. (…) Dal 1547 al 1550 i Rocaful combatterono violentemente coi Masqueda. Dal 1553 al 1562, infine,la guerra privata che si dichiararono i Pardo de la Costa e i Figuerola coinvolse numerose grandi famiglie del Regno. (…) Ma il disarmo dei moriscos di Valencia nel 1563 segnò la fine degli eserciti dei signori di questa regione poiché essi reclutavano i loro soldati principalmente tra i vassalli moreschi. Ormai l’influenza dei grandi signori si esercitò sotto il profilo del sostegno occulto che concedevano alle temibili gang che la regione valenciana dovette sopportare fino alla fine del XVI secolo; le grandi famiglie, infatti, compivano le loro vendette ricorrendo a queste gang ed ai loro sicari. Così la fazione di Anglesola era protetta dal marchese di Guadalest mentre i suoi nemici erano protetti dal duca di Medina las Torres e dall’arcivescovo. Il Conte di Carlet fu accusato nel 1625 dal vicerè per aver protetto i fuorilegge. Nel 1609 a Carcagente una vera e propria guerra oppose le famiglie dei Timors e dei Talens che sopprimevano sistematicamente parenti e gli amici degli amici"(9). Quindi, un punto nodale, di svolta era rappresentato dal passaggio dai "regolari" e legali eserciti e milizie di origine feudale a gruppi armati costituiti da servitori, delinquenti, banditi e facinorosi di ogni risma appoggiati e sostenuti occultamente, (perché la legge proibiva la costituzione di "militiae privatae" al servizio di più o meno potenti personaggi) e protetti dall’impunità giudiziaria. Aggiunge lo storico di Nimes e docente all’Università di Tolouse–le–Mirail: "(…) soprattutto nelle città piccole e medie dove le famiglie patrizie a capo di clan rivali, i "bandos", si contendevano il potere e gli onori", si ebbero delle violente manifestazioni delle aspirazioni e degli interessi egemonici in gioco. Anche in Sicilia accadeva di frequente che le procedure legali di scelta delle classi dirigenti comunali (ad esempio, le elezioni tramite il sistema del "bussolo" o la cooptazione signorile dei giurati, in base alle cosiddette mastre giuratorie) avessero delle appendici conseguenza di frodi, di violenze ed intimidazioni contro i clan rivali(10). Bravi, delinquenti, e cioè "homicidae, banniti, exitiosi, rebelles, violatores, fractores", protetti ed aiutati da una fitta rete di auxiliatores, receptatori, fautores (si tratta di quella tipica struttura popolare e borghese dalle connotazioni criminali e di difficile punibilità che nei rapporti di polizia del Novecento verrà indicata col termine "mafia") e dai perversi intrecci con uomini e frazioni delle istituzioni locali e centrali (capitani d’arme, provvisionati, giudici, baroni del Parlamento viceregio ecc.), erano delle importanti pedine nella determinazione illegale degli equilibri politici locali e generali. Ha osservato Lacchè: "La criminalità contemplata (NdA, da alcune previsioni normative specifiche in merito a tale problema) in modo particolare è quella delle quadriglie, degli scontri tra opposte fazioni, fra famiglie nemiche e alleate con i loro "eserciti" privati di bravi, banniti, rei dei più svariati crimini (di qui il "crimen militiae privatae"); ci troviamo in presenza dell’obsessio viarum, cioè delle expectaciones nelle strade per colpire proditoriamente gli avversari; e pure in campagna, lotte, faide, scontri riproducono gli odi cittadini"(11). Quindi si consolidano, se non nascevano allora, delle tecniche criminali specifiche di lotta politica al servizio di ampi gruppi cementati fra loro da vincoli di omertà (spesso incrociantisi con il mondo occulto delle confraternite che offrivano loro canoni e principi organizzativi e che creavano particolari vincoli morali tra i consociati), amicali, parentali, clientelari, pronti a soggiogare l’interesse pubblico e l’ambiente circostante. Si trattava di meccanismi di determinazione del potere integrativi o concorrenti di quelli codificati dallo Stato e dalle consuetudini locali (a loro volta rientranti in parte nell’ambito dell’Jus scriptum e pazionato tra baroni e "li populi" delle Università grazie ai Capitoli esemplati su quelli del Viceregno di Sicilia). L’omicidio, gli incendi, i pestaggi, gli sfregi, i danneggiamenti, le faide, gli agguati divengono, in alcuni casi, tutti strumenti di pressione e di determinazione degli equilibri politico-istituzionali di controllo,e di sfruttamento sociale (naturalmente illegali anche allora) in mano a gruppi così configurati. E divenivano dei metodi, socialmente subiti ed accettate delle modalità espressive del far politica. La violenza si dirigeva ed aveva come obiettivo anche uomini delle istituzioni. Si trattava di una risposta che la società siciliana dava ai tentativi di centralizzazione moderna, messi in atto dai re di Spagna e dai loro rappresentanti, in terra di Sicilia (ed anche altrove). Tuttavia questo è un problema comune ai maggiori e (costituzionalmente, organizzativamente) più evoluti Stati europei. L’esito dello scontro sarà alla lunga favorevole a questi ultimi. Ma non sempre. In alcune regioni ed aree territoriali specifiche vinceranno le forze tradizionali e prive di senso dello Stato che inquineranno pesantemente la vita pubblica e collettiva col permanere di atteggiamenti ed ordinamenti materiali illegali e di tipo mafioso.
Interessi di strutture associative trans-classiste di potere e criminali che portarono alla morte uomini dello Stato che indagavano sui loro affari illegali. Nel Cinquecento un Visitatore Regio, Francesco Pejrò, accertò una vasta gamma di furti e malversazioni perpetrati da un Regio Portulano(12). Poco dopo venne fatto uccidere da alcuni sicari. Il giudice D’Advena aveva emesso una sentenza sfavorevole ad un influente personaggio del tempo. Dei sicari lo assassinavano proditoriamente mentre si trovava nel suo studio. I killers vennero individuati. Ma poco tempo dopo, grazie ai maneggi del loro occulto mandante, potevano passeggiare tranquillamente per le vie di Palermo, riveriti e rispettati da tutti(13). Tale modello organizzativo, operativo, comportamentale venne introiettato dai ceti popolari e medi che, complici dei baroni, cercarono talvolta di farlo proprio, autonomamente, schierandosi contro i propri signori. Talora influenti personaggi delle Università baronali, con i soliti metodi illegali, davano il "la" alla scalata sociale ed alla loro emancipazione politica. Il Trasselli ci parla di numerosi esempi relativi a tale fenomeno(14). Di frequente ricchi "magnifici" si scontrarono con l’autorità baronale invocando l’aiuto dello Stato. Si pensi alle numerose richieste di "regia salvaguardia" per presunti o reali torti o vessazioni subiti dai loro signori. A Gangi, sulle Madonie, al di sotto del potere dei Ventimiglia, tra la fine del Cinquecento ed i primi del Seicento era attiva una vasta trama associativa costituita da honorabiles, nobiles, magnifici (e, quindi, dalla matrice sociologica popolar-borghese), caratterizzata dalla progettazione ed esecuzione di violenze, estorsioni, ed altri crimini, dalla capacità di condizionamento ed asservimento delle istituzioni politiche, di polizia e giudiziarie locali. Il centro di coagulo di queste energie di potere e criminali era costituito dal mondo occulto e segreto delle confraternite. In particolare, i membri altolocati ed i loro "bravi" erano protetti e si radunavano o gravitavano attorno alla potente confraternita dei Bianchi. Questa organizzazione faceva il bello ed il cattivo tempo, e promuoveva delle imponenti scalate ai vertici del potere sociale e politico (le origini popolari e borghesi dei vari baroni De Maria, Bongiorno vanno ricercate proprio in tali dinamiche)(15).
Sempre in questa Università un gruppo di notabili chiedeva, ai primi del Cinquecento, la regia salvaguardia ed il permesso di potersi fare accompagnare, però "cum pacto de non offendendo", da uomini armati per difendersi dalle presunte angherie dei Ventimiglia.
Ma il passo da un uso legittimo, a soli scopi difensivi e in attesa di altre determinazioni giudiziarie da parte dello Stato, di questa prerogativa allo sfruttamento gangsteristico, oppressivo e mafioso, era alquanto breve, come ha osservato il Trasselli(16).
Come si vede la violenza associata di ceti medi e popolari con protezioni in alto loco, con finalità di potere (a livello politico ed economico) e con quei connotati che poi verranno definiti mafiosi (questo nell’Ottocento), esistevano ed erano ben presenti, in termini illegali, molto tempo prima rispetto a quanto ritiene parte della letteratura mafiologica. A Gangi, come in molti altri centri isolani, esistevano ambiti di esercizio arbitrario della violenza istituzionalmente presente o delegata in termini legali (e che perciò diveniva così illegale) profondamente intrecciati con altri quelli extra-istituzionali ed apertamente criminali, costituiti da soggetti popolari o borghesi senza alcuna lontana prerogativa o legittimazione statuale che ne giustificasse il ricorso a metodi coercitivi e violenti.
Tali intrecci organici, dunque, andavano dal capitano d’arme corrotto e concussore ai suoi "colleghi" operanti al di fuori delle istituzioni, come i banniti, i latitanti i massari, i notai, i contadini, i curatoli, i borgesi (queste ultime categorie proteggevano i soggetti prosecuti o alla macchia), che agivano tutti insieme appassionatamente a fini delinquenziali e di potere (politico, economico, sociale).
Abbiamo sfiorato anche l’altro corno del problema: le scalate sociali ed i meccanismi paralleli ed illegali di controllo dell’economia e dei suoi cespiti.
Le magistrature pubbliche, le gabelle, ecc. erano dei mezzi legali utili all’effettuazione di importanti scalate sociali. Il problema era come accaparrarsele, come vincere le analoghe pretese dei concorrenti. Non era raro che chi aspirasse legittimamente ad ottenere in appalto (gabella) un feudo o dei servizi pubblici (si pensi alle gabelle delle carni, della seta, ecc.) solesse servirsi degli appoggi di una mano armata illegale per indurre gli altri concorrenti a non partecipare alle relative gare. Le tecniche criminali di condizionamento erano quelle solite ed atte ad intimidire gli altri gabelloti. E’ documentato che in alcuni centri siciliani durante l’Ancien Règime si verificavano casi di numerosi bandi disertati inizialmente, per poi essere aggiudicati all’unico candidato presentatosi per l’occasione. Se si svolgono ulteriori ricerche sul conto degli interessi in gioco o sugli attori di queste vicende si scopre che ci si trova di fronte a nomi di rispettati ed influenti criminali e dei loro "amici". E tutto ciò non avveniva per caso. Ecco come metodi di aggiudicazione formalmente leciti erano soggetti ad occulti ed illegali (dai toni intimidatori e violenti) condizionamenti. Sempre a Gangi, un gabelloto di un servizio pubblico dell’Università, tale Joseph Nasello, moriva in circostanze non chiarite dalle fonti coeve (1593). Altri due gabelloti legati ad un tenebroso sodalizio, amici e protettori di criminali, subentravano al defunto (vedi sopra). Si trattava forse di uno sgarro di quest’ultimo verso un sistema di aggiudicazione delle gabelle rigidamente controllato da interessi eccellenti con i loro addentellati criminali? Un fatto è storicamente certo: nella Sicilia di Ancien Règime le minacce di banditi o di altri criminali senza volto inducevano i titolari di piccole o grandi gabelle, attraverso ricatti, minacce, e violenze, ad abbandonarle nelle loro mani. Le stesse tecniche criminali di persuasione venivano adottate per indurre "gentil homini citadini o homini burgisi" ad essere "sfrattati" dai "loro lochi o possessioni" (case, vigne, massarie)(17).
Si trattava di facili strumenti di arricchimento per gli associati di realtà criminali complesse e del tipo analizzato. Altro strumento di "arricchimento facile" erano le estorsioni. Il "tenebroso sodalizio" (di fine Cinquecento) di Gangi sembrava farvi ricorso con una certa frequenza.
Ad un certo punto la Compagnia dei Bianchi statuì nel proprio regolamento interno (i Capitoli) che bisognava evitare, tramite particolari accorgimenti, il fenomeno di questue non autorizzate e rapidamente degeneratesi in vere e proprie attività estorsive. Il limite tra legittima richiesta caritatevole e quella illecita, in una Sicilia caratterizzata dal predominio della violenza arbitraria e dalla sopraffazione, era alquanto labile ed incerto. Nella Palermo del Seicento frequenti erano le estorsioni (compositioni) di bravi ed altri "mali homini", protetti da potenti baroni, nei confronti dei cittadini di quel centro(18).
Associazioni e gruppi di potere e criminali dalla composizione sociologica trans-cetuale e del tipo considerato, solevano estorcere "li vassalli del Regno", seguendo un preciso copione. Tra il gruppo di delinquenti e protettori, da un lato, e le vittime, dall’altro, si interponevano dei mediatori legati occultamente ai primi. Si trattava anche di notabili e personaggi rispettati delle comunità locali. Ad esempio, nel 1591 circa a Gangi un ex-detenuto ed ora "uomo di rispetto" che aveva rivestito delle influenti cariche amministrative, veniva proposto come mediatore in occasione di un’estorsione perpetrata da un sedicente commissario regio contro il Barone Romeo ed i suoi affittuari, tra i quali c’era il cellerario del potente monastero di Gangi Vecchio. Quest’ultimo riconosceva prestigio ed autorità al magnifico Jacopo Sola legato organicamente ad una vera e propria cosca locale Ante Litteram costituita da esponenti dei ceti subalterni e medi di Gangi (contadini, artigiani, "honorabiles" e "magnifici") in grado di: condizionare il mercato delle gabelle, la nomina dei giurati dell’Università, la Corte capitaniale (organo di polizia e giudiziario), di assicurare l’impunità ai membri del clan che agivano anche nei settori illeciti, di commettere furti, "composizioni" (estorsioni), violenze a scopo intimidatorio (verso i propri nemici, comuni "citadini", inducendoli anche a ritirare le querele di parte tramite l’istituto della liticessione), di sostenere i membri di tale "bando" che incappavano nelle maglie della giustizia (proteggendone la latitanza o favorendone la scarcerazione) ecc(19).
La scienza penale coeva aveva individuato nelle intermediazioni estorsive una piaga. Era evidente che esse sconfinassero spesso nella complicità dei brokers delle composizioni. Infatti, la legislazione spagnola nel Viceregno siciliano statuiva che: "Per levare la speranza con la quale sogliono commettere simili compositioni si ordina che nessuna persona di qualsivoglia stato e conditione che si sia quantunque interessata, non possa andare né trattare etiam per intermediam personam di dette compositioni né con detti delinquenti né con altro sotto pena di incorrere in le pene che incorrono quelli che donano agiuto e favore a detti delinquenti" (Prammatica viceregia del 30 ottobre 1578).
La criminalistica dell’Evo moderno sanzionava i crimini di intimidazione o minaccia grave anche a scopo estortivo con l’istituto giuridico della "diffidatio". Questa poteva avvenire verbalmente o con lettere minatorie ("voce", "litteris", "signis"). Chiarisce la natura di una tale categoria normativa Mario Sbriccoli: "Il modello della diffidatio sembra particolarmente prestarsi alla qualificazione di quelle forme di banditismo che si attuano attraverso società segrete provviste di potere "pubblico" (attraverso l’uso che esse possono fare del potere dei singoli affiliati) o che si strutturano secondo un modello, per intenderci, di tipo mafioso"(20). Ed ancora venivano sanzionati i sequestri di persona, gli abigeati (che spesso vedevano delle strettissime connessioni e complicità tra rappresentanti delle pubbliche istituzioni, come i giurati delle Università, delinquenti, criminali di ogni specie, banditi ed i loro protettori occulti dalla estrazione popolare e non). Imponenti e lucrosi erano i traffici clandestini ed illegali di grano. Questi ultimi, condotti da una fitta trama di esecutori ed organizzatori (criminali tout court, campieri, giurati, massari ecc.), facevano spesso capo a potenti baroni ed al famigerato Sant’Uffizio(21). Quest’ultimo storicamente è stato un importante crocevia e centro di coagulo tra interessi deviati espressi da rappresentanti delle istituzioni pubbliche, legali e quelli di criminali e "banniti" espressione di forme complesse di criminalità organizzata del tipo evidenziato in queste pagine. In questo modo si è consolidato un humus storico di connivenze e protezioni che hanno fatto fare un salto di qualità a certe forme di criminalità che oggi non esitiamo a definire mafia (anche,ma non solo, per questa loro peculiarità di legare due ambiti diversi, essendo interni e contemporaneamente esterni ed intrecciati alle pubbliche, istituzioni, ai poteri legali).
Altro aspetto importante da evidenziare e sottolineare è il ruolo e la figura del cosiddetto "bandito" della Sicilia d’Ancien Règime. L’evoluzione del concetto giuridico in base alla quale la scienza penale europea aveva definito questa figura ha portato alla identificazione, alla sinonimia tra la figura di bandito e quella di brigante (pur potendosi operare, come è stato fatto, non solo in questo campo ma anche in quello sociologico e criminologico, delle distinzioni tra le due figure in esame). La criminalistica ne ha tratteggiato i caratteri a livello di crimine individuale messo in relazione con il circuito di relazioni sociali, istituzionali di cui il bandito-brigante ha goduto. Ma in realtà tali figure, inserite in scenari così complessi, non potevano rientrare nella semplicistica concezione comune e giuridica di una sorta di ladro di campagna facilmente assimilabile, alla tipologia della delinquenza comune. Intendiamoci, sono esistite figure di soggetti che in gruppo o individualmente andavano commettendo ruberie, latrocinii, et similia per le campagne. Costoro non avevano funzioni gerarchiche significative sul piano criminologico, sociale, politico. Potevano avere insignificanti legami con la società, con classi e strati marginali. Sostanzialmente però erano dei veri emarginati, perché costretti a vivere di espedienti, a rifugiarsi costantemente in grotte, case abbandonate di campagna e così via. Per l’assenza di significativi legami e protezioni dell’ambiente circostante (da cui erano stati espulsi ergo "banditi") facilmente rischiavano di cadere tra le mani di poliziotti (in Sicilia: barricelli, provvisionati), capitani e giudici di borghi e città. In questa categoria possiamo ascrivere coloro che apparivano essere strictu sensu i veri e puri briganti, banditi. Diversa era la condizione di quei soggetti che, pur essendo stati sottoposti alla pena del bando dalle autorità del tempo, erano inafferrabili e godevano di lunghi periodi di latitanza per gli ampi ed organici rapporti con l’ambiente sociale e politico-istituzionale da cui teoricamente dovevano essere espulsi, ma in cui, in realtà e in un certo senso, continuavano ad essere inseriti o segretamente collegati. Masserie, conventi, case private, palazzi nobiliari costituivano i luoghi privilegiati in cui questa anomala tipologia di banditi trovava ricetto, aiuto, protezione ed insospettabili complicità(22). Questa costituiva una variante di ampie reti di solidarismo politico e criminale che si disputavano violentemente, con analoghe e concorrenti strutture associative il dominio del territorio e delle sue risorse. Una fitta e pittoresca trama associativa e relazionale metteva singolarmente assieme, vedeva operare fianco a fianco soggetti dalla estrazione sociale composita ed eterogenea. Rappresentanti delle istituzioni politico-amministrative e giudiziarie, che avrebbero dovuto perseguire questi banditi "sui generis", erano occultamente legati e complici di questi soggetti che giravano armati per le campagne con intenzioni delittuose e di quella rete popolare di supporto dei rei di tal natura. Così le leggi del nascente Stato moderno, e che prevedevano delle procedure pacifiche di risoluzione dei conflitti privati e pubblici, si trovavano contraddette sistematicamente da tali strutture trans-cetuali che svilivano il significato e i dettami delle stesse. Come abbiamo visto, si imponeva già tra il XVI e XVII secolo un sistema parallelo di mobilità sociale, di lotta politica, di regolazione dei rapporti pubblici e privati che contraddiceva la volontà centralizzatrice e la rivendicazione del monopolio della forza da parte del Principe (il sovrano) che iniziava, sotto certi aspetti e non senza contraddizioni, ad incarnarsi ed ad identificarsi con l’interesse generale e pubblico. Era un vero e proprio Jus non scriptum (e cioè un sistema di regole non scritte legittimate dalla prassi comunemente seguita) imposto contraddittoriamente proprio dalle alte sfere della società che, dopo aver (non senza resistenze e ritrosie iniziali), giurato formale fedeltà al Re ed alle sue leggi, amava imporre e seguire un proprio codice etico-normativo, fondato sulla intimidazione e sulla violenza (già allora)illegali. Questa piaga veniva ad inquinare tutto il corpus sociale. In questo contesto quella forma o tipologia anomala di banditismo su descritta trovava una collocazione significativa e complementare. Estorsioni, omicidi politici, ricatti, sequestri, estorsioni perpetrati ed eseguiti da siffatti banditi (spesso su commissione di chi gestiva le fila della complessa rete sociale e di potere cui appartenevano), oltre a furti, e rapine, rendevano limitativo, sul piano criminologico e funzionale, definire puri e semplici briganti o appunto banditi tali soggetti.
Si poteva accettare tale definizione sul piano storico solo in quanto la criminalistica del tempo definiva "banniti" coloro che venivano sottoposti alla pena del bando. Ma, come abbiamo visto, tale categoria giuridica era troppo generica. Esistevano realtà differenti che subivano un tale etichettamento. Da qui le confusioni sociologiche e della mafiologia dei nostri tempi che probabilmente liquida frettolosamente come puri e semplici delinquenti (appunto banditi o briganti) anche categorie criminali che non erano esattamente e propriamente tali. Gli studiosi hanno ammesso l’esistenza di legami sociali, politici ed altolocati di quelli delle ora citate realtà delinquenziali ma hanno mantenuto un atteggiamento o degli approcci fin troppo prudenti nel non far fare un salto qualitativo all’analisi di tali fenomeni. E poi si è trascurato di analizzare quella struttura popolare e socialmente intermedia di protezione della criminalità costituita da complici – manutengoli di quei "banditi" o "briganti" che in tutto e per tutto prefigurava nell’Ancien Règime (anche nel ruolo di mediazione sociale) ciò che verrà nell’Ottocento ribattezzato, specie dalle fonti di polizia, con il termine "mafia" (in realtà sembra più appropriato definire tale l’insieme delle componenti socio-criminologiche fin qui analizzate perché questo ci dà una visione più chiara ed esaustiva del problema). Coerenza metodologica imporrebbe di definire sociologicamente banditi, una volta che il progredire della scienza penale ha prodotto l’abolizione della pena del banno pur registrandosi la sopravvivenza di tale terminologia nel senso comune e nei documenti istituzionali, dei soggetti che, per analoghi legami e funzioni, odiernamente e nel recente passato sono comparabili ai vari Testalonga, Agnello, Rizzo vissuti nell’Ancien Règime. Ma raramente lo si fa (ad esempio nelle fonti di polizia ed istituzionali degli anni Sessanta e Settanta del Novecento il mafioso L. Liggio era anche definito "bandito"), perché si riconosce che sarebbe improprio farlo. Ma questo dovrebbe valere anche nell’interpretazione di fenomeni di tal natura del lontano passato (da quattro secoli a questa parte). E ciò per obiettività scientifica e correttezza metodologica. È opportuno non violentare, alterare le modalità di etichettamento, di classificazione, la terminologia giuridica coeve, originarie con cui si definivano tali soggetti e fenomeni in età moderna, ma gli studiosi di oggi dovrebbero anche interrogarsi sulla natura e significati storico-criminologici più profondi e reali di questi ultimi. E ciò anche al fine di cercare di capire se certe categorie criminali d’Ancien Régime avessero o meno un rapporto di primogenitura e continuità storica con il fenomeno mafioso.
Evoluzione del sistema penale e considerazioni su mafia e banditismo
dell’ottocento
Riteniamo opportuno continuare a spendere qualche parola sul problema del rapporto tra una specifica articolazione storica o presunta forma di banditismo e quella struttura intermedia di manutengoli che verrà etichettata nel XIX secolo come mafia. In questo modo si cercherà di definire i criteri classificatori del brigantaggio (o di particolari sue manifestazioni storiche) dell’Ottocento onde disvelarne la reale essenza storica, considerando anche il sistema di relazioni organiche in cui si muoveva (e che andremo ad analizzare accuratamente in una sua specifica estrinsecazione geo-storica, territoriale). Come sappiamo, l’etichettare come bandito un criminale nella società medievale, dagli ambiti e dai confini molto circoscritti, era uno strumento di preservazione ed immunizzazione del corpus comunitario che induceva ad allontanare il reo, il delinquente o il dissidente politico dalla comunità di appartenenza.
La creazione e l’affermazione (sia pur in modo incerto e contraddittorio) cinque-secentesca dello Stato centralizzatore, assoluto e dai connotati (secondo alcune interpretazioni storiografiche) moderni portarono ad un ampliamento del territorio giurisdizionale in cui si sarebbe dovuta applicare la pena del banno, applicabile a quei rei che non si presentavano o costituivano alle autorità giudiziarie locali o di polizia, permanendo così lo stato di latitanza. Inoltre, abbiamo visto che esistevano almeno due tipi di "banniti". Intanto però, la criminalistica, evolvendosi, portava ad un cambiamento semantico, di significato del termine in esame. Si registrava "una tendenziale identificazione tra bannitus e latro (…), ma – quello che più conta - un passaggio di tecniche dall’istituto del bannum alla fattispecie del latrocinium"(23). Veniva aperta così la strada all’identificazione o sinonimìa tra banniti e briganti (già presente nella criminalistica cinquecentesca e giunta a piena maturazione nell’Ottocento, almeno sotto il profilo giuridico ma pure dalle importanti ricadute nel linguaggio comune, quotidiano). Nel XIX secolo persistevano le antiche reti di protezioni e complicità popolari ed altolocate, istituzionali di certi banditi e bande. Si trattava di associazioni composite ma gerarchicamente unitarie, dagli eterogenei livelli funzionali sotto il profilo sociologico e criminologico. Ma con un’operazione scorretta sul piano della comprensione e dell’analisi del problema, si provvide a separare artificiosamente i diversi piani di un’unica realtà. Nacquero, quindi, le figure autonome, ma considerate paradossalmente come vasi intercomunicanti, di brigante (e bandito) - manutengoli popolari (mafiosi), alti protettori della mafia. In realtà, la presunta indipendenza della cosiddetta classe (ed anello intermedio) dei facinorosi, descritta da Franchetti, dai poteri forti non si poneva in termini radicalmente o significativamente nuovi rispetto al passato(24). Essa, anche nell’evo moderno, godeva di qualche spazio criminale e di azione autonomo (in questo modo erano possibili ascese nelle gerarchie delinquenziali e sociali da parte dei soggetti e "soldati" più intraprendenti) in seno a tali gruppi. Ma il potere, le posizioni di comando interne a tali strutture associative, allora come nell’Ottocento, risiedevano e continuavano a permanere nelle mani di personaggi che occupavano le alte sfere del potere legale, sociale(baroni, alta borghesia). Continuavano e si perpetuavano fenomeni e legami gerarchici presenti nel lontano passato della storia siciliana, quando si verificavano: "le aspettazioni, di giorno e di notte, (…) compiute da uomini armati, pagati e protetti da nobili e ricchi borghesi; sono i bravi di manzoniana memoria; corpi privati a difesa delle proprie cose e dell’onore, pronti ad ogni delitto"(25). Costoro erano i fiancheggiatori storici di quei latitanti-banditi, tra cui trovavamo coloro che "… senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere, o Gentilhuomo; officiale, o mercante, solamente per accompagnarli, sotto pretesto di vera, o colorata differenza, o questione o sospetto d’inimicitia, et fargli spalle et favore, o veramente (come si può presumere) per tendere insidie ad altri, o far qualche vendetta sua sotto l’ombra di quello…"(26). Questo testo, riportato dal Lacchè, è tratto da un documento del Cinquecento, ma potrebbe adattarsi benissimo a descrivere realtà più tarde di alcune regioni italiane. Mentre in gran parte dell’Europa e d’Italia tali fenomeni politico-criminali erano in estinzione o estinti da tempo nel XIX secolo, in Sicilia l’impatto con lo Stato unitario non portò con sé alcun cambiamento di rilievo nel campo di modalità integrative ed ataviche dell’esplicitarsi della lotta politica, economica, sociale in aree come quelle meridionali. Alcuni fattori appaiono decisivi nel consentire o meno uno sbocco positivo o negativo (a seconda del grado di incidenza e presenza) nel senso dello smantellamento di poteri sociali e politici tradizionali, feudali e di tipo paleomafioso. Li elenchiamo: 1) maggiore o minore apertura intellettuale e valoriale delle locali classi dirigenti e dominanti ai grandi influssi modernizzanti della vita culturale e religiosa (la Riforma protestante, l’Illuminismo ecc.); 2) sollecitazioni economiche esterne, internazionali di tipo capitalistico mediate dal diffondersi (nella società e nelle élites) di una moderna ed effettiva etica di fedeltà allo Stato ed ai suoi valori burocratico-impersonali contro i tradizionali privilegi, interessi arbitrari e clientelari; 3) tasso e tempi di modificazione della struttura sociale e produttiva agricola che si apriva ad un sempre più incalzante industrialismo; 4) conseguente disgregarsi dei rapporti di dipendenza feudale tra ceti e classi superiori e quelli subalterni; 5) posizione di ciascun area di fronte all’ordo mondiale capitalistico (periferica o centrale, dominante o subalterna); 6) riappropriazione del territorio da parte dello Stato (o degli Stati) contro comunità e ceti dirigenti anarcoidi 7) grado di autonomia o subalternità (politica, economica e culturale) dei ceti medi e borghesi. In Sicilia certi fattori ed influssi positivi si manifestarono debolmente perdendo lo scontro con una struttura di potere e sociale tradizionale di tipo mafioso. Certe organizzazioni che per secoli, dal primo affacciarsi dello Stato assoluto e moderno in poi, avevano frenato l’affermarsi di un assetto più avanzato dei rapporti sociali, politici ed istituzionali continuavano ad avere la meglio.
Le fonti di polizia e la pubblicistica ci parlano e rivelano la persistenza di antiche realtà associative che perseguivano finalità illecite. Queste andavano dal latitante (etichettato in vario modo come bandito o brigante o malandrino) a ricchi e medi proprietari ed esponenti delle istituzioni, passando per una struttura intermedia di insospettabili e criminali impuniti col vezzo del manutengolismo, e contribuivano a mantenere in vita un sistema comportamentale e valoriale collettivo fondato sull’esercizio di forme specifiche di violenza ed intimidazione atte ad assoggettare l’ambiente sociale e le istituzioni in cui agivano, in chiave esclusiva e monopolistica, a dispetto del monopolio della forza rivendicato dalle istituzioni repressive dello Stato. L’Ottocento ed il secolo successivo ripropongono così un vecchio modello relazionale (a livello politico e sociale). Nasce il termine mafia (nell’accezione attuale) che però sarà usato anche in modo confuso e contraddittorio (almeno in certi ambiti e frangenti). Si individuò nella struttura sociale e criminologica intermedia di tali complessi aggregati delinquenziali e politico-economici l’essenza della mafia. Campieri, curatoli, soprastanti e gabelloti ne avrebbero costituito il nerbo principale. Questa sarebbe stata capace di intessere rapporti,in alto, con politici, baroni, galantuomini, ed in basso, con contadini e i banditi, briganti, pregiudicati, proteggendoli. Ma come ha intuito Hess "non risulta producente continuare a trattare i cosiddetti banditi -padronali (NdA, ed aggiungiamo noi, inseriti in complesse reti organizzative già esistenti nell’età moderna e dalle funzioni criminali e sociali più articolate di quelle dei veri, puri e semplici ladri-briganti) come banditi. Considerati i loro rapporti funzionali con i detentori del potere, forse sarebbe meglio includerli nella bassa mafia"(27). Dalla nostra analisi del problema, condotta in altre occasioni, ci sembra più opportuna e propria la collocazione suggerita dallo studioso tedesco(28). E vari rapporti giudiziari, di polizia inserivano gli interlocutori altolocati ed innominabili di campieri e gabelloti mafiosi nell’Alta Mafia. Si capiva che la realtà non era quella che la Commissione d’Inchiesta Bonfadini negli anni Settanta dell’Ottocento voleva promuovere e veicolare, asserendo che sarebbe stata errata l’opinione secondo la quale "si è immaginato da alcuni che una fitta rete di complicità avvolgesse dalle basse alle alte classi, tutto il paese"(29). E rincaravano la dose eccellenti esponenti della politica e del baronato mafioso.
Ad esempio, Di Rudinì cercava di dare una lettura positiva della mafia, da contrapporsi a quella "maligna", delinquenziale, illustrandola come dato antropologico e culturale tipico del popolo siciliano basato su un indomito coraggio delle persone onorate e di rispetto contro qualsiasi forma di ingiustizia e di sopraffazione. Il Colonna di Cesarò pur ammetteva che storicamente "tutti i baroni, i proprietari tanto delle città che dell’interno hanno avuto sempre una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono sempre serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo (…). Pei furti, per le vendette personali, nonché per qualunque oggetto per cui in altre condizioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me qui sta l’origine della mafia (…)". E’ importante questo passo che sottolineava, in una prospettiva di lungo periodo (valida sia per le analoghe situazioni d’Ancien Règime che per l’Età contemporanea), uno degli elementi essenziali della devianza mafiosa di ceti e classi dirigenti meridionali. Infatti, quando i baroni ebbero la possibilità di esercitare il mero e misto imperio (il potere giudiziario locale) si avvalsero di provvisionati, capitani d’arme e giudici (in termini moderni, poliziotti ante litteram e magistrati) per esercitare il legale dominio sulle popolazioni rientranti nella loro giurisdizione territoriale, tuttavia si servirono anche, parallelamente e in modo mafioso, di strutture illegali e criminali per tutelare i loro interessi ed obiettivi (di potere e di consolidamento economico, sfruttando ad esempio le occasioni di lucro offerte da traffici illeciti, come l’abigeato, il commercio clandestino di grano, le estorsioni dei banditi-mafiosi del tempo), contro la legislazione penale suprema dello Stato. Nell’Ottocento, con l’abolizione di queste prerogative e privilegi in materia di giustizia, tale comportamento e le complesse radici criminali che facevano capo ai titolati siciliani continuarono, come se nulla fosse successo! Il sistema penale, tramite gli strumenti giuridici forniti dal reato di "comitiva armata" e poi da quello di "associazione di malfattori" che veniva applicato sia ai cosiddetti briganti - pseudo o realmente tali che fossero - che ai loro occulti complici (si ricordi la definizione di "malandrinaggio occulto" di tipo mafioso data dal prefetto Rasponi), tese a colpire tali condotte ed aggregati.
Depistante, invece, risultava la tesi del Colonna quando asseriva che il braccio armato di ricchi e potenti notabili siciliani, utile nei moti rivoluzionari ed autonomistici della prima metà del XIX secolo e nel 1860, sarebbe stato mollato ed abbandonato a se stesso dai suoi nobili e ricchi protettori che avrebbero giurato fedeltà al nuovo Regno. Innanzitutto, si trattava di una fedeltà condizionata ed esclusivamente formale. Questa sarebbe durata finché i privilegi, gli obiettivi delle èlites siciliane tradizionali, garantiti dallo statuto materiale delle relazioni violente, sopraffattrici ed intimidatorie e che facevano riferimento a valori culturali diffusi ed arcaici, (omertà, clientelismo, arbitrio e privatizzazione delle istituzioni pubbliche ecc.), non fossero stati intaccati dal nuovo Stato. Il quindicennio post-unitario fu travagliato da clamorose forme di insubordinazione sociale conosciute ed etichettate come brigantaggio e rivolte di vario tipo (si ricordi quella palermitana del 1866 detta del Sette e Mezzo), le quali erano anche inquadrabili in una sorta di negoziazione politica che le èlites siciliane (o sezioni consistenti di esse), fortemente intrise di "spirito di mafia" (come le bollò Gaetano Mosca), intavolarono con lo Stato. Tali dinamiche ed obiettivi si incontrarono, quantomeno in alcuni frangenti, con i disegni di stabilizzazione e normalizzazione del quadro politico da parte del governo centrale. Le misteriose sette di accoltellatori, che a Palermo e Provincia si resero responsabili di gravi episodi terroristici, sembrano costituire un modello di stragismo di Stato che vedeva affiancati apparati "deviati" (ma l’uso di tale aggettivo in casi analoghi è opinabile e alquanto controverso) delle pubbliche istituzioni con elementi eversivi e (probabilmente) della mafia(30). L’obiettivo era creare una situazione generale di grande caos sociale e politico in modo da poter colpevolizzare ed accusare di ciò le opposizioni del governo, determinando una svolta ultra-conservatrice ed illiberale(31). Ritornando all’analisi del Colonna di Cesarò, possiamo dire che la classe dei facinorosi (identificata allora con la mafia, ma ne costituiva solo una, sia pur importante, componente) continuò, invece, ad essere legata mani e piedi ai ceti dominanti, alle pubbliche istituzioni, agli apparati dello Stato. E questo fino ai nostri giorni, quando si è visto che gli affari ed i più importanti traffici criminali, il condizionamento mafioso della politica e dell’economia legale hanno visto schierati organicamente fianco a fianco (forse sarebbe meglio dire in un rapporto di organica interdipendenza), e in modo non casuale, strutture squisitamente criminali (come Cosa Nostra) con centri ed esponenti delle classi dirigenti e dominanti. Collante tra la struttura militare dei ceti altolocati, pezzi dello Stato, dell’economia, della finanza, della politica sono state organizzazioni e strutture di potere occulte. Tutto questo blocco organizzativo di relazioni e di interessi, apparentemente leciti ed apertamente illeciti, dalle eterogenee, permanenti complicità sociali (nei ceti medi e popolari), lo possiamo definire mafioso. Un modello che viene da lontano, come si è detto in queste pagine. Questa appare essere la reale essenza e natura del fenomeno in esame. Il sostenere che la classe dei facinorosi si fosse emancipata in modo significativo e peculiare dai poteri forti, come pure fecero Franchetti e Sonnino nella loro importante e lucida analisi, ha generato nei successivi paradigmi interpretativi sulla mafia, a livello giudiziario, politico, sociologico, degli equivoci, e, a nostro modesto avviso, delle fuorvianti analisi o approcci sul tema delle origini e sull’articolazione strutturale, storica ed attuale del fenomeno. Ha correttamente sostenuto Giovanna Fiume in merito alla presunta svolta in questione, ritenuta da alcuni alla base della nascita del fenomeno mafioso, riprendendo il famoso passo di Franchetti e Sonnino ("quella popolazione di facinorosi, che prima era al servizio dei baroni, diventò indipendente"): "relativamente indipendente, ci sembra, stante il peso politico che l’aristocrazia continuò a mantenere, e i legami che le bande conservarono con vecchi e nuovi protettori. I banditi agiscono per conto di qualcuno ed in subordine per proprio conto. (…) C’è sempre dietro un bandito imprendibile un aristocratico, un giudice, un sindaco, un capitano d’arme, e su questo le testimonianze sono circospette, ma nello stesso tempo esplicite"(32). L’antico modello organizzativo e relazionale di tipo criminale, presente in Età moderna, è nell’Ottocento (ed anche dopo) pienamente attivo ed operante. Da tempi lontani sino ai giorni nostri la tripartizione tra briganti (tra cui le antiche e moderne forme di pseudo–banditismo), manutengoli e complici di estrazione popolare e dei ceti medi (mafia), ed alti referenti sociali, politici ed istituzionali (gruppi caratterizzati da obiettivi politici ed economici legali ed illegali e da strategie atte ad imporre un controllo monopolistico del territorio parallelo all’ordinamento legale e costituzionale vigente) è stata attiva in Sicilia. Le oscillazioni storiche dei modelli e dei paradigmi giudiziari, mass mediologici (nei tempi più recenti), politici, sociologici sulla questione mafiosa, derivanti anche da contingenti interessi storici, ha portato a concentrare il focus analitico su una delle componenti problematiche del fenomeno mafioso. Ad esempio, nell’Ottocento e per parte del XIX secolo, come scritto, quest’ultima è stata da alcuni osservatori identificata col suo anello intermedio. Infatti, pure vari studiosi di allora misero in evidenza l’estrazione popolare, piccolo o medio borghese dei mafiosi. Nel suo "Che cos’è la mafia" Gaetano Mosca scriveva che i membri influenti delle cosche "sono quasi sempre dei piccoli proprietari, o piccoli affittuari di fondi rustici, curatoli ossia castaldi, sensali o piccoli commercianti di agrumi, di bestiame e di prodotti agricoli"(33). Al di sotto "la guida di costoro agisce un certo numero di giovinotti (…) di cui alcuni arditi di carattere ambizioso si mettono nella via del delitto". Questi ultimi non sono altro che i gregari che secondo Cutrera "alcune volte, anzi spesso, sono dei latitanti"(34). Ma c’erano anche "i pezzi grossi della provincia (i quali) danno aiuto e protezione ai briganti, perché essendo capi mafia, si accrescono la loro influenza morale"(35). Inoltre, questo "poliziotto–mafiologo" individuava pure nei guardiani, soprastanti, gabelloti e campieri la restante parte dell’universo mafioso. Sicuramente la sua era una visione più completa che gli derivava dalla propria esperienza professionale. Come si vede, anche allora diverse erano le opinioni in materia. Ma le sezioni più compromesse delle classi alte della società siciliana minimizzarono il problema strutturale ed organizzativo, asserendo che componenti di tali ambienti fossero esponenti dei ceti medio-bassi. Purtroppo, studiosi coevi e di epoche successive hanno dato credito a queste interpretazioni interessate e strumentali, cercando di dargli dignità scientifica. Oggi si è affermata una teoria sociologica sul problema sin troppo modellata sull’importante ed insostituibile, per gli squarci di verità che ha aperto, esperienza giudiziaria degli anni Ottanta che numerosi colpi ha inflitto al ramo delinquenzial-militare della mafia. Quindi, si è da più parti sottolineato il presunto predominio di una Cosa Nostra in grado di asservire lo Stato ed interi potentati economici. Una Cosa Nostra pronta a dettar legge allo Stato facendogli "la guerra", negli anni Novanta. I grossi traffici illeciti gestiti da questa struttura criminale avrebbero rovesciato i rapporti tra le componenti storiche del mondo mafioso e dei suoi alleati (almeno dagli anni Settanta in poi). In realtà, le cose sembrano stare diversamente dalle visioni interessate ed ancora una volta strumentali veicolate da mass media controllati dai poteri forti. Nella fase di transizione politica tra prima e seconda repubblica dal pool antimafia di Palermo e da altre procure d’Italia si apprendono notizie processuali ed investigative da cui il sociologo e gli esperti debbono trarre dei preziosi suggerimenti sullo stato del problema e sui suoi rapporti di forza interni. Così si apprende che ministri della Repubblica sarebbero stati organici a tali strutture, insieme a alti magistrati, massoni, grandi potentati economici, a esponenti dei servizi segreti. E’ il famoso terzo livello, di cui troppi si erano affrettati a negare l’esistenza, dopo una stagione in cui era anche politicamente produttivo gridarne ai quattro venti l’esistenza. E quella che emerge, sul piano processuale, sembra solo essere la punta dell’iceberg. Negli ultimi decenni si è spostato eccessivamente il focus analitico su uno dei corni del problema. Si sono puntati i riflettori principalmente sul ramo criminale, talvolta non considerando con la dovuta attenzione quei rami dei ceti medio-bassi che girano attorno (nelle varie inchieste giudiziarie) e proteggono i vari latitanti di mafia (opportunamente paragonati dallo storico Giuseppe Carlo Marino a moderni "briganti mafiosi urbanizzati", stabilendo un paragone temporale con i vari Rocca, Rinaldi, Di Pasquale, che imperversavano nel XIX secolo sul territorio madonita e siciliano, appoggiati e protetti da un ampio network di relazioni e complicità, nel XIX secolo). Un importante ruolo hanno in questo contesto le varie sezioni della borghesia mafiosa). Al di sopra di tutti si intravedono ancora una volta personaggi insospettabili e potentissimi. Quindi, stabilendo un parallelo con l’Ottocento, anche oggi abbiamo una sub-struttura delinquenziale o livello criminale intermedio, come allora. Si tratta degli eredi di quei campieri, soprastanti e gabelloti di una volta. Ne esplicano oggi la funzione di protezione e delinquenziale occulta. A molti è sembrato che la mafia si fosse radicalmente trasformata rispetto alle sue origini rurali e tradizionali. Si parla spesso di una gangsterizzazione dei suoi metodi. Il problema appare essere un altro. Si pongono eccessivamente, forse da taluno in modo interessato, le attenzioni sul livello degli esecutori dei crimini più efferati, che quasi inevitabilmente, spesso nei periodi di maggior conflittualità con gli apparati repressivi dello Stato, pagano con periodi di (più o meno) lunga latitanza (protetta).
Il circuito delle mediazioni e protezioni cade specie nei momenti di transizione politica. Così fu alla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, cosi è stato negli anni Venti e Novanta del Novecento, quando si è passati dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica. Molteplici sono le cronache giudiziarie che ci parlano, oltre che dei livelli più insospettabili e potenti collegati o inseriti all’interno delle associazioni mafiose (verso le quali però, con molta prudenza e reticenza, si esita spesso a definirli mafiosi, come invece sarebbe opportuno), di una "rete di protezione molto più ampia ed articolata" costituita da "gente in grado di assicurare la latitanza" agli uomini d’onore alla macchia e di condividerne i profitti illeciti. Lo storico non può far a meno di far correre la propria mente a quei gruppi di "recettatori, auxiliatori e fautori" che già in Età moderna facevano da "spalla" a latitanti e "banditi" e che partecipavano nascostamente a vari delitti o che semplicemente godevano dei proventi delittuosi senza sporcarsi direttamente le mani (gli stessi vantaggi valevano per i baroni di allora). Complicità popolari e tra i ceti medi che si rendono partecipi dei vantaggi di tali relazioni(è l’area di protettori e prestanome dei patrimoni nascosti di provenienza delittuosa). Questo accadeva con analoghe modalità, anche nel Diciannovesimo secolo (prima di allora). Inoltre, oggi, sulla scorta delle indicazioni forniteci dai più eclatanti fatti di cronaca giudiziaria, dietro i grandi delitti politici, i grandi affari delle grandi organizzazioni criminali di stampo mafioso si intravedono dei centri di potere occulto che farebbero capo a potentissime personalità operanti in vari campi e che non sembrano essere delle semplici agenzie di riciclaggio o di supporto della "politica" del grande crimine organizzato. Tutt’altro.
Bibliografia e fonti storiografiche sulla "Mafia ante litteram" o paleomafia
Il problema delle origini della mafia è stato trattato da varie angolazioni riassumibili, sintetizzabili in due principali orientamenti. Uno (dal carattere storiografico "contemporaneista" e di tipo sociologico) di questi lo connette e ricollega ai processi politici, sociali ed economici di instaurazione e costruzione dello Stato unitario (XIX secolo), mentre l’altra tesi, forse, minoritaria nel numero dei suoi fautori ma non per questo meno autorevole, ritiene, rileggendo in un ambito prospettico e cronologico più ampio la storia siciliana degli ultimi cinque-sei secoli, di inquadrarlo in fenomenologie storiche anteriori e precedenti al secolo del Positivismo. Un approccio analitico adeguato è quello che tende a distinguere il momento della nascita del fenomeno in esame dal momento in cui esso ha assunto la qualificazione e denominazione contemporanee di mafia, e cioè il "nome" dalla "cosa". In quest’ambito ci sembra che si possa rilevare un terzo orientamento, che tende a porsi in modo non pregiudiziale verso le origini preottocentesche della "piovra", rilevandone le manifestazioni definite "premafiose" che poi, in modo più compiuto e proprio, si sarebbero evolute in mafia nel XIX secolo(36). Al di là di disquisizioni semantiche e nominalistiche un dato ci appare in tutta la sua forza ed evidenza storiche: quel modello di relazioni politiche, sociali, economiche culturali dai connotati criminali che dal XIX secolo prende l’appellativo di mafioso presenta delle inequivocabili manifestazioni, dei chiari connotati e peculiarità nell’Evo moderno. E ciò appare essere la riprova della tesi o regola secondo la quale la "Historia non facit saltus", come del resto ha propugnato ed insegna la scuola braudeliana degli Annales. La tesi di chi sostiene l’esistenza del problema mafioso antecedente all’Età Contemporanea, pensiamo suffragata da chiari ed inoppugnabili dati e prove storiche, può inserirsi in quest’alveo storiografico. La mafia, o meglio ciò che si suole indicare con tale espressione, può essere considerata come un fenomeno di "lunga durata". Negli ultimi due decenni, dal generale e concorde coro scientifico che si è occupato del problema, alcune voci hanno fatto sentire la loro dissonanza circa il problema delle origini. O. Cancila in un suo scritto degli anni Ottanta, a commento di una serie di lettere redatte da magistrati del XVI secolo, ha sostenuto ed avanzato l’ipotesi che si sarebbe al cospetto di inequivocabili manifestazioni del tipo analizzato : "siamo in presenza di veri e propri clan mafiosi" imperanti in pieno Cinquecento e Seicento a dispetto del potere assoluto rivendicato dallo Stato composito spagnolo. Emblematico il sottotitolo del volume da lui pubblicato: "Quando la mafia non si chiamava mafia"(37). Anche Trasselli, a commento della innumerevole casistica di lotte e faide cittadine cinquecentesche da lui studiate, ricavate da una imponente documentazione archivistica e riportate nel volume sulla "esperienza storica siciliana tra il 1475 ed il 1525", non esita a sottolineare l’esistenza, in questa fase storica, di un fenomeno che nel XIX e XX secolo verrà definito mafioso, invitando, nemmeno in modo tanto velato, a leggere meno superficialmente il problema delle origini(38). Pure Vincenzo Titone anni prima aveva studiato il problema riferendone e rilevandone la presenza nella Sicilia di Ancien Règime (in particolare ha accostato l’organizzazione occulta del Sant’Uffizio al modello organizzativo ed operativo mafioso). Santi Correnti fissa nel ‘500 "l’atto ufficiale della mafia nel senso moderno della parola, cioè come collusione dell’attività delinquenziale col potere costituito"(39). Inoltre, nella sua Breve Storia di Palermo Nino Muccioli appare dare per scontato ciò che in realta non è così univoco e pacifico nell’ambito degli studi mafiologici: "Come è ben noto a tutti gli studiosi del fenomeno della mafia, la malavita organizzata in Sicilia nacque durante la dominazione spagnola nel Cinquecento"(40). Probabilmente la tesi dell’introduzione del modello mafioso da parte degli Spagnoli su suolo e società siciliani, risente di una antica polemica storiografica di stampo sicilianista ed anti-spagnolo, tesa ad addebitare i mali della Trinacria a fattori esterni piuttosto che ricercarne le cause anche o soprattutto in dinamiche storiche autoctone (con ciò non trascurando e non rinunciando però ad una lettura a 360 gradi dell’ eziogenesi del fenomeno). Ma nella Spagna moderna, comunque, gli storici hanno individuato componenti e manifestazioni di tipo mafioso o paramafioso. Bartolomè Benassar ha ravvisato nella picardìa sivigliana l’esistenza di organizzazioni che costituivano dei "modelli di gestione nel più puro stile mafioso". Stesse caratteristiche altri hanno individuato nelle Cardunas ispaniche. Lo storico Francesco Renda, pur privilegiando uno studio della mafia considerandone le manifestazioni storiche che vanno dall’Ottocento ai nostri giorni, si è comunque posto il problema delle origini collocando queste ultime in una età storica anteriore al XIX secolo: "Certamente la mafia come "cosa", cioè come mentalità, come comportamento individuale e anche come associazione criminale diretta a praticare la violenza organizzata, non nacque nel contesto della costruzione dello Stato nazionale"(41). Lo Storico ne individua le espressioni moderne, e cioè le "situazioni tipiche di protomafia", nel manutengolismo dei nobili in favore di banditi e malfattori, nelle compagnie d’armi dalle ambigue relazioni e composizione. Denis Mack Smith fa altrettanto, e pone chiaramente le origini della mafia quantomeno in età moderna(42). Francesco Paolo Castiglione opportunamente ricorda che, nel contesto di un articolo pubblicato dalla rivista Segno, il problema mafioso non può essere letto in termini riduttivi e depistanti, riferendolo semplicemente ad una congrega o "gruppo di facinorosi semianalfabeti "in grado di mettere in ginocchio lo Stato, ma ben altro. Si tratterebbe di un blocco o modello sociale, dai caratteri illegali in grado di essere contemporaneamente Stato ed Antistato, riferibile principalmente alle èlites siciliane. Modello sociale straordinariamente costante nel tempo (anche Castiglione ne rileva la presenza sin dal Cinquecento) che ha avuto al suo servizio ed è stato rappresentato dai bravacci baronali, dalle maestranze cittadine, dalle bande di briganti, ecc(43). Tessitore ha scritto: "La nascita del fenomeno va, comunque, correttamente collocata in epoca di gran lunga anteriore al 1860, annidandosene i germi, in maniera abbastanza nitida, nelle pieghe più remote della storia della civiltà e del costume siciliano: quantomeno intorno al XVI e XVII secolo, quando tracce di pratiche mafiose sono già ampiamente riconoscibili nell’isola". Lo Studioso, fra l’altro, illustra i coevi ed ambigui, illegali rapporti di collusione tra baroni ed i "malfattori organizzati", i fenomeni di arricchimento ed ascesa sociale sostanzialmente inalterati tra 600 e 800 (comportanti anche un consueto e criminale uso spregiudicato ed impunito della forza), la complessità di certe bande che, costituite da un nucleo centrale ai margini e della società e operanti nella piena illegalità, erano sostenute da uno stuolo di soggetti ("satelliti") che si prestavano ad essere nell’ombra complici dei reati "per poi rientrare ove non scoperti ed individuati, nella legalità"(44). Questi numerosi studi ci dicono che sul tema delle origini, abbiamo i seguenti indirizzi o scuole di pensiero che potremmo ribattezzare: 1) "sociologico-contemporaneista", (che vede nella mafia un fenomeno nato nel XIX secolo, frutto di una modernizzazione distorta e di specifici processi politico-economici del tempo); 2) "storico- modernista" (quello che anticipa all’età moderna la genesi del problema e costituito principalmente da storici dell’Età moderna o, comunque, da studiosi che si sono anche occupati di quest’ambito cronologico). Poi c’è una terza linea interpretativa mediatrice tra i due orientamenti. È i rischi interpretativi di criteri e posizioni analitiche connessi al tema delle origini possono essere costituiti dall’angolazione prospettica da cui esso viene affrontato. Questa intima, rappresentata dal curriculum e dagli interessi, obiettivi culturali e di ricerca propri di ogni studioso, può talora incidere sugli esiti dell’indagine svolta, portando alla sottovalutazione di importanti aspetti. Per cui il sociologo, il modernista e l’esperto di storia contemporanea, a nostro modesto avviso, dovrebbero sempre porsi in chiave ed atteggiamenti critici e dialettici verso ambiti disciplinari non propri. Per cui, ad esempio, il contemporaneista dovrebbe chiedersi ed effettuare una più attenta indagine fenomenologica, anche sconfinando nello studio accurato di epoche non rientranti nel proprio background ed ambito disciplinari, o comunque far tesoro delle indicazioni fornite dagli specialisti. Il modernista potrebbe in alcuni casi non fermarsi agli aspetti più certi ed evidenti del problema studiato (la cosa), ma scandagliarlo più in profondità, approfittando di una ricca e varia documentazione storica che giace nei nostri archivi e che permette di affrontare nella sua poliedricità il fenomeno in questione.
In questo modo è possibile sviscerarne analiticamente l’evoluzione, le sue permanenze storiche, strutturali e peculiari fino ad arrivare alla presunta o pseudo "data" di nascita dello stesso, fissata, dalla imperante produzione mafiologica degli ultimi quarant’anni, nell’Ottocento. Gli archivi notarili dell’età moderna consentono di studiarlo sotto un profilo socio-economico, relazionale e (perché no?) organizzativo, associativo (in particolar modo si pensi alla documentazione storica relativa ad antiche confraternite). Le fonti istituzionali centrali e periferiche del Viceregno (politico-burocratiche), quelle giudiziarie (come gli atti delle varie Corti capitaniali cittadine), consentono di effettuare una ricognizione giuridica, criminologica, politica di quel problema che poi verrà chiamato mafia. Da queste analisi possono emergere (come in parte ci suggeriscono i pochi studi condotti su questo piano) risultati ed indicazioni che mettano in rilievo la continuità storica del fenomeno mafioso tra l’Età moderna e quella contemporanea. Un approccio o punto di partenza analitico serio ci pare possa essere costituito dall’individuazione di come certe caratteristiche e peculiarità fra loro contestualmente intrecciate e non prese a se stanti o operanti in modo separato (omertà, manutengolismo popolare e delle élitès verso banditi, criminali di ogni risma, particolari forme di uso della violenza -come quelle di tipo associativo- che preludono a scalate e modalità di affermazione, socio-economica che si muovono tra liceità ed illegalità, ecc.), e cioè prodotte, legate e riferibili a specifiche associazioni o gruppi sociali e di potere, siano uscite da un alveo di legittimità o legalità (come ad esempio, nell’età medievale dominata dalla crisi dello Stato feudale, dal netto carattere policentrico in materia di titolarità del potere, e dal prepotere delle fazioni baronali) per entrare in un ambito di illegalità, criminale fissato, definito e stabilito da un’autorità politico-territoriale e giuridica superiore che tende ad avocare, in termini tendenzialmente assoluti (ma non senza contraddizioni ed arretramenti), titolarità e legittimità del potere contro i particolarismi di casta, locali e le istanze tradizionali universalistiche (rappresentate tradizionalmente da Impero e Papato).
In altri termini, si propone di far risalire la genesi ufficiale del fenomeno mafioso mettendola in relazione con l’affermazione ed il consolidamento di processi di centralizzazione del potere che condurranno all’affermazione dello Stato assoluto e moderno. Questa prospettiva è stata già adottata in modo autorevole nel corso di studi scientifici sul problema del banditismo, brigantaggio e criminalità organizzata nell’Evo moderno. Questi fenomeni, scrive Aymard, acquistano senso soltanto in rapporto allo Stato del quale contestano l’autorità e ne testimoniano le esitazioni, gli insuccessi sulla via della conduzione o del tentativo di imporre il gioco in relazione alla materia fiscale, giudiziaria, militare(45). Ed altresì, in tema di rivendicazione, almeno di principio, del monopolio assoluto della forza. Modelli di arricchimento, relazioni sociali di, determinazione di equilibri politici, dotate di proprie regole e norme (nel caso particolare, non scritte), condotte violente e prevaricatrici ecc. diventano illegali, criminali e costituiscono un problema oltrechè giudiziario anche di interesse scientifico, allorquando si determina una discrasia, un conflitto con centri di potere, politico-giuridici che si pongono non in posizione orizzontale(si pensi alla fase storica siciliana dell’anarchia feudale baronale del Trecento) nei loro confronti ma in un rapporto di forza di tipo gerarchico, superiore, verticale, verticistico, che tende ad incarnare il bonnum commune ed a presentarsi come garante della sicurezza di tutti i consociati. Prendiamo a prestito, in tale contesto la frase di Franco Cardini, usata nel corso di una sua relazione sulla criminalità medievale, "il fuorilegge non è tale se non si confronta di continuo con la legge che infrange". Ed aggiungiamo noi, non possiamo avere un fenomeno che possiamo propriamente definire mafioso se non c’è un criterio giuridico, legale superiore che lo sanzioni penalmente. Le prammatiche siciliane cinque- secentesche contro la criminalità ed i suoi intrecci e legami politici, istituzionali, sociali, ed i conseguenti interventi repressivi dello od in nome dello Stato ne costituiscono la riprova storica (anche in tema di rapporti di forza sotto il profilo giuridico-istituzionale).
Conclusioni
Non è storicamente condivisibile l’obiezione di chi sostiene che il problema dell’esistenza del fenomeno mafioso non si porrebbe in età moderna perché ai baroni era stato delegato il potere di mero e misto imperio, per cui bignorebbe considerarli padroni e signori assoluti nei loro feudi. Conseguenza di ciò: tutto sarebbe stato consentito loro ed agli sgherri che lavoravano alle loro dipendenze. Questo era vero finchè non fu ripristanata l’autorità dello Stato nel Quattrocento. Dopodiché principio e fonte originaria del potere giudiziario locale, sul piano formale, era e restava il sovrano che poteva in qualsiasi momento riprendersi ciò che aveva concesso. Tale prerogativa doveva essere esercitata, in ultima analisi, per conto del re e, comunque, all’interno dell’impalcatura organizzativa dello Stato (rappresentato ed espresso in Sicilia dalla struttura ed ordinamento dell’antico "Regnum"). Così certe condotte non erano ammissibili sul piano giuridico nemmeno per i baroni. Il Principe di Camporeale, protettore del bandito soprannominato "Baiocco", fu carcerato con la seguente motivazione addotta dal Vicerè Maffei (1715): "non ho voluto ammettergli alcuna scusa con dirgli che se havesse dato gli ordini opportuni alli suoi ufficiali di arrestare questa sorta di gente quando si ricoverano nelle sue terre non mi haverebbero obbligato a domandarne conto a lui…"(46). Questo passo ci chiarisce la subalternità dei baroni e delle Corti giudiziarie locali, presenti nelle loro terre, al potere regio. Esse erano (o dovevano essere sulla base dei principi costituzionali del "Regnum"), in ultima analisi, un vero e proprio "instrumentum regni" del sovrano e non del ceto baronale. Lo Stato composito spagnolo possedette anche in Sicilia legittimità ed autorità politico-giuridica, teorica e concreta, nel reprimere episodi collusivi e di criminalità organizzata (poi il perché in pratica le cose spesso stessero diversamente, era da ricollegare al gioco mafioso delle protezioni messo in atto dalle élitès siciliane, a sua volta strettamente intrecciato alla corruzione e corruttibilità istituzionali, ed alle contingenti convenienze politiche delle supreme autorità spagnole e borboniche). Ne sapeva qualcosa il Principe di Mezzoiuso: "Il Principe di Mezzoiuso havendo osato ricoverare e soffrire in alcuno dei suoi feudi pubblici grassatori, ladri e simil gente facinorosa contro il servizio pubblico et ordini reali (…) S.M (lo, NdA) ha riputato immeritevole delle grazie riportate dalla di lui speciale benignità e però ha stimato che la Deputazione al medesimo concessa resti di niun valore…"(47). Cosi, in una lettera inviata alla Gran Corte, veniva scritto dal ST. Thomas stretto collaboratore di Vittorio Amedeo. Ciò era sancito anche sulla base delle prammatiche del Regno anteriori al dominio dei Savoia in Sicilia. È interessante rilevare, nel passo ora riportato, la subalternità gerarchica delle Corte capitaniale baronale nei confronti dell’autorità centrale, specie in materia di reati e crimini delinquenziali e violenti. L’esistenza di centri di potere informali occulti e criminali (costituiti da vasti aggregati transcetuali ed operanti all’interno ed all’esterno delle istituzioni pubbliche), che sostituivano ai metodi codificati e legali ufficialmente vigenti (rappresentati dalle prammatiche, dai capitoli, dalle consuetudini locali e generali ecc.), basati sul (tendenziale) monopolio della forza statuale e, comunque, su vie pacifiche di mediazione e composizione dei contrasti e conflitti sociali, su uso arbitrario, intimidatorio ed effettivo della violenza privata (attraverso tecniche e modalità specifiche tali da costituire un ordinamento paragiuridico o giuridico non scritto, un paradigma culturale disciplinanti i comportamenti collettivi) al fine di controllare le risorse ed i luoghi istituzionali che ne regolavano l’allocazione tra gruppi e componenti sociali, costituiva un modello parallelo all’ordinamento e leggi statuali dell’età moderna che si conserverà e sopravviverà fino ai nostri giorni.
"Banditi", "Briganti", rete di manutengoli-criminali impuniti e poteri legali: tra Ancien Règime e Stato unitario
Le campagne siciliane degli anni Settanta del XIX secolo erano in preda alle azioni criminose di varie bande armate. In particolare, sulle Madonie imperava pressoché incontrastata quella diretta dal duo Rocca-Rinaldi. Si trattava di un raro esempio di gruppo armato di stampo delinquenziale guidato da due capi. Le popolazioni madonite erano terrorizzate da questa comitiva armata. La stampa e la pubblicistica del tempo, secondo uno schema che verrà seguito anche nel Novecento, sottolinearono ed enfatizzarono oltre il lecito il ruolo ed il potere di una banda che, composta da una quindicina o da una ventina di unità, avrebbe assoggettato istituzioni, potentati politici ed economici, intere popolazioni. Poteva uno sparuto manipolo di delinquenti assoggettare parecchie decine di migliaia d’individui che vivevano su quel territorio? Era possibile che importanti funzionari dello Stato, influentissimi baroni e gabelloti non trovassero altra via che subire in silenzio la volontà ed i disegni criminali della "gang" e, come unica scappatoia, non trovassero di meglio che allearvisi occultamente, divenendone complici?
Autorevoli voci si levarono verso le supreme autorità dello Stato, invocando "misure energiche". Il deputato La Porta, stigmatizzando l’inanità del governo, disse: " i proprietari che sono le vittime dei malfattori, i proprietari che corrispondono le imposte, sono in diritto di pretendere che il governo, il quale le riscuote, adempia il proprio dovere"(1). Ma intanto i rapporti di prefettura parlavano di una realtà in gran parte diversa dalle superficiali letture fatte da altre e autorevoli fonti istituzionali e "mass mediologiche" (così definiremmo oggi la stampa, i libri di allora ecc.). Un autorevole storico, Giuseppe Carlo Marino, nel descrivere ed analizzare quelle vicende scrive: "Se interpellati sulle vicende mafiose che si svolgevano sulle loro terre, i proprietari e i parassiti borghesi con i quali erano in combutta (i gabelloti) continuavano spudoratamente ad invocare compassione dichiarandosi vittime della mafia e dei briganti e accusando lo Stato di essere incapace di proteggerli"(2). Già la mafia. Ma cos’era la mafia? Cosa s’intendeva indicare con tale termine? Con tale neologismo si voleva designare una realtà sociale e criminale "nuova", nata in seguito all’abolizione del regime feudale da parte del Regime borbonico.
Si trattava di associazioni trans-classiste, che abbracciavano i vertici sociali con i rami più bassi delle comunità locali, tese al perseguimento di finalità di arricchimento o di potere attraverso condotte e strategie legali-illegali perseguite a loro volta mediante il condizionamento violento, illecito a fini privati delle pubbliche istituzioni, degli aspetti della vita economica e sociale. Esse si sostanziavano in un anomalo e perverso intreccio tra componenti criminali (con compiti meramente esecutivi ed esterni alle istituzioni statuali), da un lato, e soggetti operanti all’interno di queste ultime e nei rami ufficiali e legali del Potere, dall’altro. Se si andava ad analizzare meglio la loro strutturazione si poteva notare come accanto alle bande etichettate come brigantesche e responsabili di ogni sorta di crimini si affiancassero altri soggetti che contemporaneamente commettevano dei delitti frutto di violenze ed intimidazioni contro la persona o la proprietà ma che, a differenza dei "banditi"(con i quali non disdegnavano di riunirsi per comuni finalità delittuose), riuscivano a vincere lo scontro con l’apparato repressivo dello Stato, sfuggendo alle conseguenti condanne e sanzioni penali. Non infrequentemente questi ultimi erano partecipi dei proventi delittuosi dei banditi loro complici e protetti. Si trattava, dunque, del "malandrinaggio occulto" denunciato dal prefetto Rasponi e da lui identificato con la mafia. In realtà, i funzionari dello Stato italiano si trovavano di fronte a delle tipologie criminali e di potere che da tempo immemorabile avevano connotato e permeato la vita politica, economica e sociale della Sicilia. Parecchi bandi e prammatiche regie della Sicilia spagnola e borbonica avevano nel corso dei secoli denunciato in modo quasi ossessivo (a testimonianza della vischiosità e persistenza del fenomeno) l’esistenza di tali complessi aggregati delittuosi dediti a rapine, abigeati, omicidi, estorsioni, sul fronte dell’illecito, ed al controllo intimidatorio della vita politica, del mercato delle gabelle, ecc. Ad una rete popolare di sostegno della struttura esecutiva, ad alto allarme e pericolosità sociali (banditi, briganti, latitanti ecc.), si affiancava una rete di complici impuniti ed occulti. Al vertice di questo sistema erano individuabili potenti baroni, membri dell’alta e media borghesia. Le Prammatiche del Cinquecento e del Seicento individuarono e sanzionarono penalmente il comportamento di auxiliatori, recettatori e fautori che non si limitavano solamente a nascondere e foraggiare "banniti et forgiudicati", ma che erano partecipi anche dei furti, delle estorsioni e di altri delitti commessi da questi ultimi. Ed in tali protezioni si ravvisava la causa fondamentale delle gravi difficoltà incontrate nel catturare tali delinquenti. Fatto grave e caratterizzante tali aggregati erano le complicità occulte godute in alto loco. Per questo motivo molto dure erano le pene previste ed a carico dei capitani d’arme, dei baroni inseriti in questo sottile ed occulto gioco di protezioni. Ma è da sottolineare la sorprendente persistenza nel tempo del modello rappresentato da tali aggregati delittuosi e di potere. Oggi il Procuratore Aggiunto Sergio Lari, in occasione di un’importante retata antimafia, ha puntato l’indice sulla rete di manutengoli che ha permesso a gregari e boss mafiosi latitanti di continuare ad operare indisturbatamente (per la legislazione d’Ancien Règime costoro potevano essere etichettati come semplici "banniti", fatto che genererà delle confusioni terminologiche sul tema contemporaneo del rapporto tra "banditismo e mafia", separando artificiosamente due componenti di un unico fenomeno, cioè quella degli affiliati "alla macchia" da quella dei manutengoli-criminali impuniti operanti "alla luce del sole"): "Bisogna colpire la rete di protezione che assicura e permette ai latitanti di godere dei vantaggi della latitanza". Questa tipologia associativa di tipo criminale, sociale, economico e di potere aveva subito diversi etichettamenti giuridici e nel linguaggio comune, prima che nascesse il termine che tanta fortuna ha riscosso a livello universale, e cioè "mafia". La legislazione d’Ancien Régime contro i banniti ed i loro complici, le diffidatio, la vis pubblica, le conventicole, le quadriglie, le lotte tra "bandos", e quella borbonica ed ottocentesca sulle comitive armate, "l’associazione di malfattori" comprendevano una vasta gamma di reati e di eterogenee realtà criminogene(3). Ma talora ed in alcuni contesti storico-sociali all’interno di questo "labelling" (etichettamento) giuridico si sanzionavano comportamenti ed associazioni tipologicamente ed ontologicamente rientranti in quell’ambito fenomenologico che nell’Ottocento verrà denominato "mafia". Lacchè ha fatto rilevare il rapporto se non di filiazione, di contiguità giuridica tra la categoria penale di conventicola e quella dell’associazione di malfattori. Quest’ultima aveva un significato più pregnante ed esaustivo rispetto a concetti normativi desunti dalla scienza penale e dalla criminalistica d’Ancien Règime: "Probabilmente la grande novità di questa figura consiste (…) proprio nella considerazione di taluni fenomeni associativi, in primis quello brigantesco; l’associazione riesce, almeno a livello teorico, ad unificare una complessa e fitta trama di attività attraverso il ricorso al carattere dell’appartenenza. Ma sarebbe soprattutto servita, nella sua potenziale estensibilità a qualificare altri fenomeni, dall’associazione di stampo mafioso (…) alle società anarchiche e politiche, ritenute sovvertitrici dell’ordine pubblico"(4). Ma facciamo un passo indietro. Fenomeni (al tempo stesso criminali, di potere, economici, culturali e sociali) con la loro tipica tripartizione funzionale e strutturale (latitanti impuniti-manutengoli di estrazione medio-bassa dai connotati occultamente delinquenziali strettamente ed organicamente intrecciati con ambiti istituzionali e del potere legale- esponenti delle istituzioni e dei ceti altolocati) finalizzati a mettere in atto strategie di potere e di arricchimento paralleli a quelli ufficiali e leciti (facenti capo ai nascenti Stati moderni), attraverso metodi intimidatori e violenti (in contrasto col monopolio della violenza avocato dal re e dai suoi supremi tribunali), sono presenti sin da quando "il potere statale nel corso del XVI sec. (a livello puramente tendenziale) progetta una riconquista dei territori sottoposti solo formalmente al suo dominio politico, riunificando entità e forze disperse"(5).
Si trattava di strutture associative di tipo criminale in pieno contrasto con l’ethos normativo e l’ordinamento costituzionale messo in piedi dal sovrano, dal ceto dei giuristi e dei funzionari di Stato di cui questi si circondava. Infatti, la creazione di un corpo burocratico moderno era uno degli aspetti peculiari e fondanti dei processi di centralizzazione del potere in età moderna.
Scrive Mario Caravale : "i nobili riconoscevano di derivare le loro giurisdizioni non già dalla consuetudine, dall’uso nato dalle necessità della vita associata e continuamente rispettato, bensì dalla volontà regia"(6).
La nascita dello Stato Moderno
I processi di centralizzazione politica dei sovrani moderni e la nuova impalcatura degli Stati servivano a garantire, e questo era uno dei principi legittimanti degli stessi, alcuni beni fondamentali della società e dell’individuo, come la sicurezza personale e patrimoniale dei sudditi da ogni forma di aggressione e da ogni insidia che provenisse da ambienti non in linea con l’ordo socialis e politico giuridicamente imposto dal Principe. Non erano più tollerati gruppi armati privati (o comunque quelli che non avessero il benestare del re) al servizio di ricchi ed influenti personaggi o di qualsiasi altro soggetto al di fuori di quelli previsti e ritenuti regolari dall’ordinamento politico-giuridico del tempo. Contravvenire a tale disarmo generale, imposto dal sovrano, avrebbe significato incorrere nel "crimen lesae majestatis" è, in particolare, in quello di "militiae privatae". Il sovrano non ammetteva strutture e poteri concorrenti al proprio che tendeva a porsi al di sopra di tutti i baroni e che si dichiarava giuridicamente e sostanzialmente indipendente dai poteri universalistici tradizionali, e cioè Papato ed Impero. Ma ampie sezioni delle popolazioni soggette e suddite dei vari re europei ed italiani non erano mature a subire un processo di "State-Building" in chiave nuova, moderna ed in parte diversa dal passato (anche se con gli assetti tradizionali normativi, sociali bisognava scontrarsi e fare dei compromessi). I fenomeni politici centralizzatori messi in atto dai vertici dello Stato erano tutto sommato relativamente rapidi e cozzavano con una realtà sociale e territoriale caratterizzata dall’esistenza di piccoli e influenti poteri diffusi ed anarcoidi (con in prima fila il baronato). In seguito a scontri militari tra due e veri e propri schieramenti, che vedevano attestate, da un lato, le truppe fedeli al sovrano costituite da mercenari e baroni (questo specie in una prima fase), e le milizie (in quel momento "regolari") dei vari feudatari, dall’altro, si determinava l’esito dei successi o degli insuccessi nell’intraprendere questa nuova strada politica.
Nella Sicilia del Trecento assistiamo allo sfaldarsi del potere centralizzato del Regnum costruito pazientemente dalla monarchia normano-sveva che aveva delle basi ancora feudali ma con contenuti organizzativi e costituzionali senz ‘altro in anticipo rispetto alle successive e più mature costruzioni ed assetti dello Stato moderno. I più potenti dignitari e signori di Sicilia avevano fortemente compresso l’autorità regia, aprendo la strada a potentati locali di tipo meramente feudale.
Scrive Caravale che: "negli ultimi anni del secolo XIV aveva cominciato a sfaldarsi l’assetto signorile dell’isola che aveva diviso il territorio siciliano in quattro grandi domini comitali - tenuti rispettivamente dagli Alagona, dai Chiaramonte, dai Ventimiglia e dai Peralta - e aveva collocato in posizione del tutto marginale la potestà monarchica, limitandone l’autorità alle sole terre demaniali"(7).
Con l’avvento dei Martini comincia un processo di recupero delle potestà centrali e dei territori usurpati dai nobili. Fonte di ogni giurisdizione diviene il sovrano, e, quindi, l’assetto normativo, costituzionale statuale.
E’ questo un trend di carattere generale in gran parte dell’Europa (specie quella occidentale). Nel campo della giustizia (civile, amministrativa, penale) vengono istituiti dei supremi organi centrali (Tribunale del Real Patrimonio, la Regia Gran Corte, il Concistoro ecc.) cui devono far capo, e cioè in posizione gerarchica subalterna, tutte le corti locali e le "basse" giurisdizioni (che saranno molteplici ma, comunque, in un certo qual modo interne ed assimilate nella grande impalcatura statuale). Nonostante nei secoli successivi tali dinamiche centralizzatrici avessero conosciuto dei progressi e delle fasi di stallo o arretramento, tale principio non verrà più definitivamente messo in crisi od accantonato. Ormai era stata aperta anche in Sicilia la strada che, attraverso una contraddittoria evoluzione, avrebbe portato ad una più compiuta e moderna realizzazione di modalità e formule organizzative politico-territoriali. Nel Cinquecento si va verso la creazione di una "milizia nazionale" che tendeva a superare il ruolo militare del baronato, il quale diveniva parte integrante dell’ordinamento fondamentale del Viceregno(8). Era un’altra vittoria dello Stato nella dura lotta verso la sanzione ufficiale di chi dovesse essere il titolare ed il detentore supremo del monopolio della forza. Attratta nella Palermo curtense, la nobiltà reagirà ai progetti dei funzionari e dei viceré spagnoli tendenti ad esautorarla dalle supreme cariche dello Stato. Il baronato, parte fondamentale della classe dirigente isolana (si pensi al suo ruolo costituzionale nel Parlamento siciliano), se da un lato sembrava accettare la vittoria militare e politica dei Re di Spagna, dall’altro maturava delle forme sorde ed occulte di resistenza e di difesa dei propri privilegi e del proprio potere. Mentre in altri Stati europei, sia pur gradualmente, le élitès sociali ed economiche accettavano il potere sovrano, giurandogli una formale e più ancora sostanziale fedeltà,in Sicilia l’effettività di tale processo stentava ad affermarsi, in favore di interessi particolaristici e privati, spesso dai connotati criminali.
L’opposizione mafiosa dei baroni e delle comunità locali contro lo Stato
Il baronato siciliano, nonostante fosse stato destinatario di una delega locale, in merito all’amministrazione legale e tramite magistrati ad hoc, di poteri di giustizia, fatto che gli dava ampie facoltà di dominio e controllo sulle comunità soggette, comunque, esercitati in nome del re, cercò degli strumenti che gli consentissero di esercitare, arbitrariamente ed al di fuori di qualsiasi prescrizione e statuizione normative, la violenza a fini di potere ed economici. E tutto ciò al di là di ogni regola o legge dello Stato. Si veniva a creare un ordinamento materiale dell’esercizio della forza che naturalmente entrava in conflitto con quella sorta di grundnorm (norma costituzionale fondamentale ed originaria di uno Stato, secondo Kelsen) che faceva del sovrano e degli apparati pubblici la fonte originaria e legittimante di ogni giurisdizione e l’archè legittimo e legale in materia di uso esclusivo della violenza da loro stessi preteso e formalmente imposto a tutti i sudditi. In Sicilia, come in Italia ed in Europa, almeno inizialmente, comunità locali e baroni diedero vita a forme di protesta, di non accettazione dell’ordo Principis. Ad esempio, in Spagna le guerre private continuarono nonostante la forte politica di centralizzazione che si riconosceva nell’operato dei Re Cattolici ed i loro successori con il loro corpo scelto di funzionari e burocrati di professione (tratti principalmente dal ceto dei letrados), in funzione antifeudale ed anti-signorile. Eserciti feudali persistevano alle dipendenze di alcuni grandi signori in perenne lotta fra loro. Progressivamente, come già scritto, lo Stato intese eliminare queste contraddizioni. Si provvide a smantellare (almeno in via tendenziale) una tale tipologia di strutture militari, legittime in età medievale. Ma i baroni preferirono servirsi illegalmente di sicari, banditi, criminali e facinorosi impuniti di ogni risma per le loro strategie di potere. Scrive Bartolomè Benassar a proposito di tale situazione nella penisola iberica tra Cinquecento e Seicento: "Signori meno prestigiosi si abbandonavano senza scrupoli a guerre di clan ricorrendo ai servigi di sicari. (…) Dal 1547 al 1550 i Rocaful combatterono violentemente coi Masqueda. Dal 1553 al 1562, infine,la guerra privata che si dichiararono i Pardo de la Costa e i Figuerola coinvolse numerose grandi famiglie del Regno. (…) Ma il disarmo dei moriscos di Valencia nel 1563 segnò la fine degli eserciti dei signori di questa regione poiché essi reclutavano i loro soldati principalmente tra i vassalli moreschi. Ormai l’influenza dei grandi signori si esercitò sotto il profilo del sostegno occulto che concedevano alle temibili gang che la regione valenciana dovette sopportare fino alla fine del XVI secolo; le grandi famiglie, infatti, compivano le loro vendette ricorrendo a queste gang ed ai loro sicari. Così la fazione di Anglesola era protetta dal marchese di Guadalest mentre i suoi nemici erano protetti dal duca di Medina las Torres e dall’arcivescovo. Il Conte di Carlet fu accusato nel 1625 dal vicerè per aver protetto i fuorilegge. Nel 1609 a Carcagente una vera e propria guerra oppose le famiglie dei Timors e dei Talens che sopprimevano sistematicamente parenti e gli amici degli amici"(9). Quindi, un punto nodale, di svolta era rappresentato dal passaggio dai "regolari" e legali eserciti e milizie di origine feudale a gruppi armati costituiti da servitori, delinquenti, banditi e facinorosi di ogni risma appoggiati e sostenuti occultamente, (perché la legge proibiva la costituzione di "militiae privatae" al servizio di più o meno potenti personaggi) e protetti dall’impunità giudiziaria. Aggiunge lo storico di Nimes e docente all’Università di Tolouse–le–Mirail: "(…) soprattutto nelle città piccole e medie dove le famiglie patrizie a capo di clan rivali, i "bandos", si contendevano il potere e gli onori", si ebbero delle violente manifestazioni delle aspirazioni e degli interessi egemonici in gioco. Anche in Sicilia accadeva di frequente che le procedure legali di scelta delle classi dirigenti comunali (ad esempio, le elezioni tramite il sistema del "bussolo" o la cooptazione signorile dei giurati, in base alle cosiddette mastre giuratorie) avessero delle appendici conseguenza di frodi, di violenze ed intimidazioni contro i clan rivali(10). Bravi, delinquenti, e cioè "homicidae, banniti, exitiosi, rebelles, violatores, fractores", protetti ed aiutati da una fitta rete di auxiliatores, receptatori, fautores (si tratta di quella tipica struttura popolare e borghese dalle connotazioni criminali e di difficile punibilità che nei rapporti di polizia del Novecento verrà indicata col termine "mafia") e dai perversi intrecci con uomini e frazioni delle istituzioni locali e centrali (capitani d’arme, provvisionati, giudici, baroni del Parlamento viceregio ecc.), erano delle importanti pedine nella determinazione illegale degli equilibri politici locali e generali. Ha osservato Lacchè: "La criminalità contemplata (NdA, da alcune previsioni normative specifiche in merito a tale problema) in modo particolare è quella delle quadriglie, degli scontri tra opposte fazioni, fra famiglie nemiche e alleate con i loro "eserciti" privati di bravi, banniti, rei dei più svariati crimini (di qui il "crimen militiae privatae"); ci troviamo in presenza dell’obsessio viarum, cioè delle expectaciones nelle strade per colpire proditoriamente gli avversari; e pure in campagna, lotte, faide, scontri riproducono gli odi cittadini"(11). Quindi si consolidano, se non nascevano allora, delle tecniche criminali specifiche di lotta politica al servizio di ampi gruppi cementati fra loro da vincoli di omertà (spesso incrociantisi con il mondo occulto delle confraternite che offrivano loro canoni e principi organizzativi e che creavano particolari vincoli morali tra i consociati), amicali, parentali, clientelari, pronti a soggiogare l’interesse pubblico e l’ambiente circostante. Si trattava di meccanismi di determinazione del potere integrativi o concorrenti di quelli codificati dallo Stato e dalle consuetudini locali (a loro volta rientranti in parte nell’ambito dell’Jus scriptum e pazionato tra baroni e "li populi" delle Università grazie ai Capitoli esemplati su quelli del Viceregno di Sicilia). L’omicidio, gli incendi, i pestaggi, gli sfregi, i danneggiamenti, le faide, gli agguati divengono, in alcuni casi, tutti strumenti di pressione e di determinazione degli equilibri politico-istituzionali di controllo,e di sfruttamento sociale (naturalmente illegali anche allora) in mano a gruppi così configurati. E divenivano dei metodi, socialmente subiti ed accettate delle modalità espressive del far politica. La violenza si dirigeva ed aveva come obiettivo anche uomini delle istituzioni. Si trattava di una risposta che la società siciliana dava ai tentativi di centralizzazione moderna, messi in atto dai re di Spagna e dai loro rappresentanti, in terra di Sicilia (ed anche altrove). Tuttavia questo è un problema comune ai maggiori e (costituzionalmente, organizzativamente) più evoluti Stati europei. L’esito dello scontro sarà alla lunga favorevole a questi ultimi. Ma non sempre. In alcune regioni ed aree territoriali specifiche vinceranno le forze tradizionali e prive di senso dello Stato che inquineranno pesantemente la vita pubblica e collettiva col permanere di atteggiamenti ed ordinamenti materiali illegali e di tipo mafioso.
Interessi di strutture associative trans-classiste di potere e criminali che portarono alla morte uomini dello Stato che indagavano sui loro affari illegali. Nel Cinquecento un Visitatore Regio, Francesco Pejrò, accertò una vasta gamma di furti e malversazioni perpetrati da un Regio Portulano(12). Poco dopo venne fatto uccidere da alcuni sicari. Il giudice D’Advena aveva emesso una sentenza sfavorevole ad un influente personaggio del tempo. Dei sicari lo assassinavano proditoriamente mentre si trovava nel suo studio. I killers vennero individuati. Ma poco tempo dopo, grazie ai maneggi del loro occulto mandante, potevano passeggiare tranquillamente per le vie di Palermo, riveriti e rispettati da tutti(13). Tale modello organizzativo, operativo, comportamentale venne introiettato dai ceti popolari e medi che, complici dei baroni, cercarono talvolta di farlo proprio, autonomamente, schierandosi contro i propri signori. Talora influenti personaggi delle Università baronali, con i soliti metodi illegali, davano il "la" alla scalata sociale ed alla loro emancipazione politica. Il Trasselli ci parla di numerosi esempi relativi a tale fenomeno(14). Di frequente ricchi "magnifici" si scontrarono con l’autorità baronale invocando l’aiuto dello Stato. Si pensi alle numerose richieste di "regia salvaguardia" per presunti o reali torti o vessazioni subiti dai loro signori. A Gangi, sulle Madonie, al di sotto del potere dei Ventimiglia, tra la fine del Cinquecento ed i primi del Seicento era attiva una vasta trama associativa costituita da honorabiles, nobiles, magnifici (e, quindi, dalla matrice sociologica popolar-borghese), caratterizzata dalla progettazione ed esecuzione di violenze, estorsioni, ed altri crimini, dalla capacità di condizionamento ed asservimento delle istituzioni politiche, di polizia e giudiziarie locali. Il centro di coagulo di queste energie di potere e criminali era costituito dal mondo occulto e segreto delle confraternite. In particolare, i membri altolocati ed i loro "bravi" erano protetti e si radunavano o gravitavano attorno alla potente confraternita dei Bianchi. Questa organizzazione faceva il bello ed il cattivo tempo, e promuoveva delle imponenti scalate ai vertici del potere sociale e politico (le origini popolari e borghesi dei vari baroni De Maria, Bongiorno vanno ricercate proprio in tali dinamiche)(15).
Sempre in questa Università un gruppo di notabili chiedeva, ai primi del Cinquecento, la regia salvaguardia ed il permesso di potersi fare accompagnare, però "cum pacto de non offendendo", da uomini armati per difendersi dalle presunte angherie dei Ventimiglia.
Ma il passo da un uso legittimo, a soli scopi difensivi e in attesa di altre determinazioni giudiziarie da parte dello Stato, di questa prerogativa allo sfruttamento gangsteristico, oppressivo e mafioso, era alquanto breve, come ha osservato il Trasselli(16).
Come si vede la violenza associata di ceti medi e popolari con protezioni in alto loco, con finalità di potere (a livello politico ed economico) e con quei connotati che poi verranno definiti mafiosi (questo nell’Ottocento), esistevano ed erano ben presenti, in termini illegali, molto tempo prima rispetto a quanto ritiene parte della letteratura mafiologica. A Gangi, come in molti altri centri isolani, esistevano ambiti di esercizio arbitrario della violenza istituzionalmente presente o delegata in termini legali (e che perciò diveniva così illegale) profondamente intrecciati con altri quelli extra-istituzionali ed apertamente criminali, costituiti da soggetti popolari o borghesi senza alcuna lontana prerogativa o legittimazione statuale che ne giustificasse il ricorso a metodi coercitivi e violenti.
Tali intrecci organici, dunque, andavano dal capitano d’arme corrotto e concussore ai suoi "colleghi" operanti al di fuori delle istituzioni, come i banniti, i latitanti i massari, i notai, i contadini, i curatoli, i borgesi (queste ultime categorie proteggevano i soggetti prosecuti o alla macchia), che agivano tutti insieme appassionatamente a fini delinquenziali e di potere (politico, economico, sociale).
Abbiamo sfiorato anche l’altro corno del problema: le scalate sociali ed i meccanismi paralleli ed illegali di controllo dell’economia e dei suoi cespiti.
Le magistrature pubbliche, le gabelle, ecc. erano dei mezzi legali utili all’effettuazione di importanti scalate sociali. Il problema era come accaparrarsele, come vincere le analoghe pretese dei concorrenti. Non era raro che chi aspirasse legittimamente ad ottenere in appalto (gabella) un feudo o dei servizi pubblici (si pensi alle gabelle delle carni, della seta, ecc.) solesse servirsi degli appoggi di una mano armata illegale per indurre gli altri concorrenti a non partecipare alle relative gare. Le tecniche criminali di condizionamento erano quelle solite ed atte ad intimidire gli altri gabelloti. E’ documentato che in alcuni centri siciliani durante l’Ancien Règime si verificavano casi di numerosi bandi disertati inizialmente, per poi essere aggiudicati all’unico candidato presentatosi per l’occasione. Se si svolgono ulteriori ricerche sul conto degli interessi in gioco o sugli attori di queste vicende si scopre che ci si trova di fronte a nomi di rispettati ed influenti criminali e dei loro "amici". E tutto ciò non avveniva per caso. Ecco come metodi di aggiudicazione formalmente leciti erano soggetti ad occulti ed illegali (dai toni intimidatori e violenti) condizionamenti. Sempre a Gangi, un gabelloto di un servizio pubblico dell’Università, tale Joseph Nasello, moriva in circostanze non chiarite dalle fonti coeve (1593). Altri due gabelloti legati ad un tenebroso sodalizio, amici e protettori di criminali, subentravano al defunto (vedi sopra). Si trattava forse di uno sgarro di quest’ultimo verso un sistema di aggiudicazione delle gabelle rigidamente controllato da interessi eccellenti con i loro addentellati criminali? Un fatto è storicamente certo: nella Sicilia di Ancien Règime le minacce di banditi o di altri criminali senza volto inducevano i titolari di piccole o grandi gabelle, attraverso ricatti, minacce, e violenze, ad abbandonarle nelle loro mani. Le stesse tecniche criminali di persuasione venivano adottate per indurre "gentil homini citadini o homini burgisi" ad essere "sfrattati" dai "loro lochi o possessioni" (case, vigne, massarie)(17).
Si trattava di facili strumenti di arricchimento per gli associati di realtà criminali complesse e del tipo analizzato. Altro strumento di "arricchimento facile" erano le estorsioni. Il "tenebroso sodalizio" (di fine Cinquecento) di Gangi sembrava farvi ricorso con una certa frequenza.
Ad un certo punto la Compagnia dei Bianchi statuì nel proprio regolamento interno (i Capitoli) che bisognava evitare, tramite particolari accorgimenti, il fenomeno di questue non autorizzate e rapidamente degeneratesi in vere e proprie attività estorsive. Il limite tra legittima richiesta caritatevole e quella illecita, in una Sicilia caratterizzata dal predominio della violenza arbitraria e dalla sopraffazione, era alquanto labile ed incerto. Nella Palermo del Seicento frequenti erano le estorsioni (compositioni) di bravi ed altri "mali homini", protetti da potenti baroni, nei confronti dei cittadini di quel centro(18).
Associazioni e gruppi di potere e criminali dalla composizione sociologica trans-cetuale e del tipo considerato, solevano estorcere "li vassalli del Regno", seguendo un preciso copione. Tra il gruppo di delinquenti e protettori, da un lato, e le vittime, dall’altro, si interponevano dei mediatori legati occultamente ai primi. Si trattava anche di notabili e personaggi rispettati delle comunità locali. Ad esempio, nel 1591 circa a Gangi un ex-detenuto ed ora "uomo di rispetto" che aveva rivestito delle influenti cariche amministrative, veniva proposto come mediatore in occasione di un’estorsione perpetrata da un sedicente commissario regio contro il Barone Romeo ed i suoi affittuari, tra i quali c’era il cellerario del potente monastero di Gangi Vecchio. Quest’ultimo riconosceva prestigio ed autorità al magnifico Jacopo Sola legato organicamente ad una vera e propria cosca locale Ante Litteram costituita da esponenti dei ceti subalterni e medi di Gangi (contadini, artigiani, "honorabiles" e "magnifici") in grado di: condizionare il mercato delle gabelle, la nomina dei giurati dell’Università, la Corte capitaniale (organo di polizia e giudiziario), di assicurare l’impunità ai membri del clan che agivano anche nei settori illeciti, di commettere furti, "composizioni" (estorsioni), violenze a scopo intimidatorio (verso i propri nemici, comuni "citadini", inducendoli anche a ritirare le querele di parte tramite l’istituto della liticessione), di sostenere i membri di tale "bando" che incappavano nelle maglie della giustizia (proteggendone la latitanza o favorendone la scarcerazione) ecc(19).
La scienza penale coeva aveva individuato nelle intermediazioni estorsive una piaga. Era evidente che esse sconfinassero spesso nella complicità dei brokers delle composizioni. Infatti, la legislazione spagnola nel Viceregno siciliano statuiva che: "Per levare la speranza con la quale sogliono commettere simili compositioni si ordina che nessuna persona di qualsivoglia stato e conditione che si sia quantunque interessata, non possa andare né trattare etiam per intermediam personam di dette compositioni né con detti delinquenti né con altro sotto pena di incorrere in le pene che incorrono quelli che donano agiuto e favore a detti delinquenti" (Prammatica viceregia del 30 ottobre 1578).
La criminalistica dell’Evo moderno sanzionava i crimini di intimidazione o minaccia grave anche a scopo estortivo con l’istituto giuridico della "diffidatio". Questa poteva avvenire verbalmente o con lettere minatorie ("voce", "litteris", "signis"). Chiarisce la natura di una tale categoria normativa Mario Sbriccoli: "Il modello della diffidatio sembra particolarmente prestarsi alla qualificazione di quelle forme di banditismo che si attuano attraverso società segrete provviste di potere "pubblico" (attraverso l’uso che esse possono fare del potere dei singoli affiliati) o che si strutturano secondo un modello, per intenderci, di tipo mafioso"(20). Ed ancora venivano sanzionati i sequestri di persona, gli abigeati (che spesso vedevano delle strettissime connessioni e complicità tra rappresentanti delle pubbliche istituzioni, come i giurati delle Università, delinquenti, criminali di ogni specie, banditi ed i loro protettori occulti dalla estrazione popolare e non). Imponenti e lucrosi erano i traffici clandestini ed illegali di grano. Questi ultimi, condotti da una fitta trama di esecutori ed organizzatori (criminali tout court, campieri, giurati, massari ecc.), facevano spesso capo a potenti baroni ed al famigerato Sant’Uffizio(21). Quest’ultimo storicamente è stato un importante crocevia e centro di coagulo tra interessi deviati espressi da rappresentanti delle istituzioni pubbliche, legali e quelli di criminali e "banniti" espressione di forme complesse di criminalità organizzata del tipo evidenziato in queste pagine. In questo modo si è consolidato un humus storico di connivenze e protezioni che hanno fatto fare un salto di qualità a certe forme di criminalità che oggi non esitiamo a definire mafia (anche,ma non solo, per questa loro peculiarità di legare due ambiti diversi, essendo interni e contemporaneamente esterni ed intrecciati alle pubbliche, istituzioni, ai poteri legali).
Altro aspetto importante da evidenziare e sottolineare è il ruolo e la figura del cosiddetto "bandito" della Sicilia d’Ancien Règime. L’evoluzione del concetto giuridico in base alla quale la scienza penale europea aveva definito questa figura ha portato alla identificazione, alla sinonimia tra la figura di bandito e quella di brigante (pur potendosi operare, come è stato fatto, non solo in questo campo ma anche in quello sociologico e criminologico, delle distinzioni tra le due figure in esame). La criminalistica ne ha tratteggiato i caratteri a livello di crimine individuale messo in relazione con il circuito di relazioni sociali, istituzionali di cui il bandito-brigante ha goduto. Ma in realtà tali figure, inserite in scenari così complessi, non potevano rientrare nella semplicistica concezione comune e giuridica di una sorta di ladro di campagna facilmente assimilabile, alla tipologia della delinquenza comune. Intendiamoci, sono esistite figure di soggetti che in gruppo o individualmente andavano commettendo ruberie, latrocinii, et similia per le campagne. Costoro non avevano funzioni gerarchiche significative sul piano criminologico, sociale, politico. Potevano avere insignificanti legami con la società, con classi e strati marginali. Sostanzialmente però erano dei veri emarginati, perché costretti a vivere di espedienti, a rifugiarsi costantemente in grotte, case abbandonate di campagna e così via. Per l’assenza di significativi legami e protezioni dell’ambiente circostante (da cui erano stati espulsi ergo "banditi") facilmente rischiavano di cadere tra le mani di poliziotti (in Sicilia: barricelli, provvisionati), capitani e giudici di borghi e città. In questa categoria possiamo ascrivere coloro che apparivano essere strictu sensu i veri e puri briganti, banditi. Diversa era la condizione di quei soggetti che, pur essendo stati sottoposti alla pena del bando dalle autorità del tempo, erano inafferrabili e godevano di lunghi periodi di latitanza per gli ampi ed organici rapporti con l’ambiente sociale e politico-istituzionale da cui teoricamente dovevano essere espulsi, ma in cui, in realtà e in un certo senso, continuavano ad essere inseriti o segretamente collegati. Masserie, conventi, case private, palazzi nobiliari costituivano i luoghi privilegiati in cui questa anomala tipologia di banditi trovava ricetto, aiuto, protezione ed insospettabili complicità(22). Questa costituiva una variante di ampie reti di solidarismo politico e criminale che si disputavano violentemente, con analoghe e concorrenti strutture associative il dominio del territorio e delle sue risorse. Una fitta e pittoresca trama associativa e relazionale metteva singolarmente assieme, vedeva operare fianco a fianco soggetti dalla estrazione sociale composita ed eterogenea. Rappresentanti delle istituzioni politico-amministrative e giudiziarie, che avrebbero dovuto perseguire questi banditi "sui generis", erano occultamente legati e complici di questi soggetti che giravano armati per le campagne con intenzioni delittuose e di quella rete popolare di supporto dei rei di tal natura. Così le leggi del nascente Stato moderno, e che prevedevano delle procedure pacifiche di risoluzione dei conflitti privati e pubblici, si trovavano contraddette sistematicamente da tali strutture trans-cetuali che svilivano il significato e i dettami delle stesse. Come abbiamo visto, si imponeva già tra il XVI e XVII secolo un sistema parallelo di mobilità sociale, di lotta politica, di regolazione dei rapporti pubblici e privati che contraddiceva la volontà centralizzatrice e la rivendicazione del monopolio della forza da parte del Principe (il sovrano) che iniziava, sotto certi aspetti e non senza contraddizioni, ad incarnarsi ed ad identificarsi con l’interesse generale e pubblico. Era un vero e proprio Jus non scriptum (e cioè un sistema di regole non scritte legittimate dalla prassi comunemente seguita) imposto contraddittoriamente proprio dalle alte sfere della società che, dopo aver (non senza resistenze e ritrosie iniziali), giurato formale fedeltà al Re ed alle sue leggi, amava imporre e seguire un proprio codice etico-normativo, fondato sulla intimidazione e sulla violenza (già allora)illegali. Questa piaga veniva ad inquinare tutto il corpus sociale. In questo contesto quella forma o tipologia anomala di banditismo su descritta trovava una collocazione significativa e complementare. Estorsioni, omicidi politici, ricatti, sequestri, estorsioni perpetrati ed eseguiti da siffatti banditi (spesso su commissione di chi gestiva le fila della complessa rete sociale e di potere cui appartenevano), oltre a furti, e rapine, rendevano limitativo, sul piano criminologico e funzionale, definire puri e semplici briganti o appunto banditi tali soggetti.
Si poteva accettare tale definizione sul piano storico solo in quanto la criminalistica del tempo definiva "banniti" coloro che venivano sottoposti alla pena del bando. Ma, come abbiamo visto, tale categoria giuridica era troppo generica. Esistevano realtà differenti che subivano un tale etichettamento. Da qui le confusioni sociologiche e della mafiologia dei nostri tempi che probabilmente liquida frettolosamente come puri e semplici delinquenti (appunto banditi o briganti) anche categorie criminali che non erano esattamente e propriamente tali. Gli studiosi hanno ammesso l’esistenza di legami sociali, politici ed altolocati di quelli delle ora citate realtà delinquenziali ma hanno mantenuto un atteggiamento o degli approcci fin troppo prudenti nel non far fare un salto qualitativo all’analisi di tali fenomeni. E poi si è trascurato di analizzare quella struttura popolare e socialmente intermedia di protezione della criminalità costituita da complici – manutengoli di quei "banditi" o "briganti" che in tutto e per tutto prefigurava nell’Ancien Règime (anche nel ruolo di mediazione sociale) ciò che verrà nell’Ottocento ribattezzato, specie dalle fonti di polizia, con il termine "mafia" (in realtà sembra più appropriato definire tale l’insieme delle componenti socio-criminologiche fin qui analizzate perché questo ci dà una visione più chiara ed esaustiva del problema). Coerenza metodologica imporrebbe di definire sociologicamente banditi, una volta che il progredire della scienza penale ha prodotto l’abolizione della pena del banno pur registrandosi la sopravvivenza di tale terminologia nel senso comune e nei documenti istituzionali, dei soggetti che, per analoghi legami e funzioni, odiernamente e nel recente passato sono comparabili ai vari Testalonga, Agnello, Rizzo vissuti nell’Ancien Règime. Ma raramente lo si fa (ad esempio nelle fonti di polizia ed istituzionali degli anni Sessanta e Settanta del Novecento il mafioso L. Liggio era anche definito "bandito"), perché si riconosce che sarebbe improprio farlo. Ma questo dovrebbe valere anche nell’interpretazione di fenomeni di tal natura del lontano passato (da quattro secoli a questa parte). E ciò per obiettività scientifica e correttezza metodologica. È opportuno non violentare, alterare le modalità di etichettamento, di classificazione, la terminologia giuridica coeve, originarie con cui si definivano tali soggetti e fenomeni in età moderna, ma gli studiosi di oggi dovrebbero anche interrogarsi sulla natura e significati storico-criminologici più profondi e reali di questi ultimi. E ciò anche al fine di cercare di capire se certe categorie criminali d’Ancien Régime avessero o meno un rapporto di primogenitura e continuità storica con il fenomeno mafioso.
Evoluzione del sistema penale e considerazioni su mafia e banditismo
dell’ottocento
Riteniamo opportuno continuare a spendere qualche parola sul problema del rapporto tra una specifica articolazione storica o presunta forma di banditismo e quella struttura intermedia di manutengoli che verrà etichettata nel XIX secolo come mafia. In questo modo si cercherà di definire i criteri classificatori del brigantaggio (o di particolari sue manifestazioni storiche) dell’Ottocento onde disvelarne la reale essenza storica, considerando anche il sistema di relazioni organiche in cui si muoveva (e che andremo ad analizzare accuratamente in una sua specifica estrinsecazione geo-storica, territoriale). Come sappiamo, l’etichettare come bandito un criminale nella società medievale, dagli ambiti e dai confini molto circoscritti, era uno strumento di preservazione ed immunizzazione del corpus comunitario che induceva ad allontanare il reo, il delinquente o il dissidente politico dalla comunità di appartenenza.
La creazione e l’affermazione (sia pur in modo incerto e contraddittorio) cinque-secentesca dello Stato centralizzatore, assoluto e dai connotati (secondo alcune interpretazioni storiografiche) moderni portarono ad un ampliamento del territorio giurisdizionale in cui si sarebbe dovuta applicare la pena del banno, applicabile a quei rei che non si presentavano o costituivano alle autorità giudiziarie locali o di polizia, permanendo così lo stato di latitanza. Inoltre, abbiamo visto che esistevano almeno due tipi di "banniti". Intanto però, la criminalistica, evolvendosi, portava ad un cambiamento semantico, di significato del termine in esame. Si registrava "una tendenziale identificazione tra bannitus e latro (…), ma – quello che più conta - un passaggio di tecniche dall’istituto del bannum alla fattispecie del latrocinium"(23). Veniva aperta così la strada all’identificazione o sinonimìa tra banniti e briganti (già presente nella criminalistica cinquecentesca e giunta a piena maturazione nell’Ottocento, almeno sotto il profilo giuridico ma pure dalle importanti ricadute nel linguaggio comune, quotidiano). Nel XIX secolo persistevano le antiche reti di protezioni e complicità popolari ed altolocate, istituzionali di certi banditi e bande. Si trattava di associazioni composite ma gerarchicamente unitarie, dagli eterogenei livelli funzionali sotto il profilo sociologico e criminologico. Ma con un’operazione scorretta sul piano della comprensione e dell’analisi del problema, si provvide a separare artificiosamente i diversi piani di un’unica realtà. Nacquero, quindi, le figure autonome, ma considerate paradossalmente come vasi intercomunicanti, di brigante (e bandito) - manutengoli popolari (mafiosi), alti protettori della mafia. In realtà, la presunta indipendenza della cosiddetta classe (ed anello intermedio) dei facinorosi, descritta da Franchetti, dai poteri forti non si poneva in termini radicalmente o significativamente nuovi rispetto al passato(24). Essa, anche nell’evo moderno, godeva di qualche spazio criminale e di azione autonomo (in questo modo erano possibili ascese nelle gerarchie delinquenziali e sociali da parte dei soggetti e "soldati" più intraprendenti) in seno a tali gruppi. Ma il potere, le posizioni di comando interne a tali strutture associative, allora come nell’Ottocento, risiedevano e continuavano a permanere nelle mani di personaggi che occupavano le alte sfere del potere legale, sociale(baroni, alta borghesia). Continuavano e si perpetuavano fenomeni e legami gerarchici presenti nel lontano passato della storia siciliana, quando si verificavano: "le aspettazioni, di giorno e di notte, (…) compiute da uomini armati, pagati e protetti da nobili e ricchi borghesi; sono i bravi di manzoniana memoria; corpi privati a difesa delle proprie cose e dell’onore, pronti ad ogni delitto"(25). Costoro erano i fiancheggiatori storici di quei latitanti-banditi, tra cui trovavamo coloro che "… senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere, o Gentilhuomo; officiale, o mercante, solamente per accompagnarli, sotto pretesto di vera, o colorata differenza, o questione o sospetto d’inimicitia, et fargli spalle et favore, o veramente (come si può presumere) per tendere insidie ad altri, o far qualche vendetta sua sotto l’ombra di quello…"(26). Questo testo, riportato dal Lacchè, è tratto da un documento del Cinquecento, ma potrebbe adattarsi benissimo a descrivere realtà più tarde di alcune regioni italiane. Mentre in gran parte dell’Europa e d’Italia tali fenomeni politico-criminali erano in estinzione o estinti da tempo nel XIX secolo, in Sicilia l’impatto con lo Stato unitario non portò con sé alcun cambiamento di rilievo nel campo di modalità integrative ed ataviche dell’esplicitarsi della lotta politica, economica, sociale in aree come quelle meridionali. Alcuni fattori appaiono decisivi nel consentire o meno uno sbocco positivo o negativo (a seconda del grado di incidenza e presenza) nel senso dello smantellamento di poteri sociali e politici tradizionali, feudali e di tipo paleomafioso. Li elenchiamo: 1) maggiore o minore apertura intellettuale e valoriale delle locali classi dirigenti e dominanti ai grandi influssi modernizzanti della vita culturale e religiosa (la Riforma protestante, l’Illuminismo ecc.); 2) sollecitazioni economiche esterne, internazionali di tipo capitalistico mediate dal diffondersi (nella società e nelle élites) di una moderna ed effettiva etica di fedeltà allo Stato ed ai suoi valori burocratico-impersonali contro i tradizionali privilegi, interessi arbitrari e clientelari; 3) tasso e tempi di modificazione della struttura sociale e produttiva agricola che si apriva ad un sempre più incalzante industrialismo; 4) conseguente disgregarsi dei rapporti di dipendenza feudale tra ceti e classi superiori e quelli subalterni; 5) posizione di ciascun area di fronte all’ordo mondiale capitalistico (periferica o centrale, dominante o subalterna); 6) riappropriazione del territorio da parte dello Stato (o degli Stati) contro comunità e ceti dirigenti anarcoidi 7) grado di autonomia o subalternità (politica, economica e culturale) dei ceti medi e borghesi. In Sicilia certi fattori ed influssi positivi si manifestarono debolmente perdendo lo scontro con una struttura di potere e sociale tradizionale di tipo mafioso. Certe organizzazioni che per secoli, dal primo affacciarsi dello Stato assoluto e moderno in poi, avevano frenato l’affermarsi di un assetto più avanzato dei rapporti sociali, politici ed istituzionali continuavano ad avere la meglio.
Le fonti di polizia e la pubblicistica ci parlano e rivelano la persistenza di antiche realtà associative che perseguivano finalità illecite. Queste andavano dal latitante (etichettato in vario modo come bandito o brigante o malandrino) a ricchi e medi proprietari ed esponenti delle istituzioni, passando per una struttura intermedia di insospettabili e criminali impuniti col vezzo del manutengolismo, e contribuivano a mantenere in vita un sistema comportamentale e valoriale collettivo fondato sull’esercizio di forme specifiche di violenza ed intimidazione atte ad assoggettare l’ambiente sociale e le istituzioni in cui agivano, in chiave esclusiva e monopolistica, a dispetto del monopolio della forza rivendicato dalle istituzioni repressive dello Stato. L’Ottocento ed il secolo successivo ripropongono così un vecchio modello relazionale (a livello politico e sociale). Nasce il termine mafia (nell’accezione attuale) che però sarà usato anche in modo confuso e contraddittorio (almeno in certi ambiti e frangenti). Si individuò nella struttura sociale e criminologica intermedia di tali complessi aggregati delinquenziali e politico-economici l’essenza della mafia. Campieri, curatoli, soprastanti e gabelloti ne avrebbero costituito il nerbo principale. Questa sarebbe stata capace di intessere rapporti,in alto, con politici, baroni, galantuomini, ed in basso, con contadini e i banditi, briganti, pregiudicati, proteggendoli. Ma come ha intuito Hess "non risulta producente continuare a trattare i cosiddetti banditi -padronali (NdA, ed aggiungiamo noi, inseriti in complesse reti organizzative già esistenti nell’età moderna e dalle funzioni criminali e sociali più articolate di quelle dei veri, puri e semplici ladri-briganti) come banditi. Considerati i loro rapporti funzionali con i detentori del potere, forse sarebbe meglio includerli nella bassa mafia"(27). Dalla nostra analisi del problema, condotta in altre occasioni, ci sembra più opportuna e propria la collocazione suggerita dallo studioso tedesco(28). E vari rapporti giudiziari, di polizia inserivano gli interlocutori altolocati ed innominabili di campieri e gabelloti mafiosi nell’Alta Mafia. Si capiva che la realtà non era quella che la Commissione d’Inchiesta Bonfadini negli anni Settanta dell’Ottocento voleva promuovere e veicolare, asserendo che sarebbe stata errata l’opinione secondo la quale "si è immaginato da alcuni che una fitta rete di complicità avvolgesse dalle basse alle alte classi, tutto il paese"(29). E rincaravano la dose eccellenti esponenti della politica e del baronato mafioso.
Ad esempio, Di Rudinì cercava di dare una lettura positiva della mafia, da contrapporsi a quella "maligna", delinquenziale, illustrandola come dato antropologico e culturale tipico del popolo siciliano basato su un indomito coraggio delle persone onorate e di rispetto contro qualsiasi forma di ingiustizia e di sopraffazione. Il Colonna di Cesarò pur ammetteva che storicamente "tutti i baroni, i proprietari tanto delle città che dell’interno hanno avuto sempre una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono sempre serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo (…). Pei furti, per le vendette personali, nonché per qualunque oggetto per cui in altre condizioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me qui sta l’origine della mafia (…)". E’ importante questo passo che sottolineava, in una prospettiva di lungo periodo (valida sia per le analoghe situazioni d’Ancien Règime che per l’Età contemporanea), uno degli elementi essenziali della devianza mafiosa di ceti e classi dirigenti meridionali. Infatti, quando i baroni ebbero la possibilità di esercitare il mero e misto imperio (il potere giudiziario locale) si avvalsero di provvisionati, capitani d’arme e giudici (in termini moderni, poliziotti ante litteram e magistrati) per esercitare il legale dominio sulle popolazioni rientranti nella loro giurisdizione territoriale, tuttavia si servirono anche, parallelamente e in modo mafioso, di strutture illegali e criminali per tutelare i loro interessi ed obiettivi (di potere e di consolidamento economico, sfruttando ad esempio le occasioni di lucro offerte da traffici illeciti, come l’abigeato, il commercio clandestino di grano, le estorsioni dei banditi-mafiosi del tempo), contro la legislazione penale suprema dello Stato. Nell’Ottocento, con l’abolizione di queste prerogative e privilegi in materia di giustizia, tale comportamento e le complesse radici criminali che facevano capo ai titolati siciliani continuarono, come se nulla fosse successo! Il sistema penale, tramite gli strumenti giuridici forniti dal reato di "comitiva armata" e poi da quello di "associazione di malfattori" che veniva applicato sia ai cosiddetti briganti - pseudo o realmente tali che fossero - che ai loro occulti complici (si ricordi la definizione di "malandrinaggio occulto" di tipo mafioso data dal prefetto Rasponi), tese a colpire tali condotte ed aggregati.
Depistante, invece, risultava la tesi del Colonna quando asseriva che il braccio armato di ricchi e potenti notabili siciliani, utile nei moti rivoluzionari ed autonomistici della prima metà del XIX secolo e nel 1860, sarebbe stato mollato ed abbandonato a se stesso dai suoi nobili e ricchi protettori che avrebbero giurato fedeltà al nuovo Regno. Innanzitutto, si trattava di una fedeltà condizionata ed esclusivamente formale. Questa sarebbe durata finché i privilegi, gli obiettivi delle èlites siciliane tradizionali, garantiti dallo statuto materiale delle relazioni violente, sopraffattrici ed intimidatorie e che facevano riferimento a valori culturali diffusi ed arcaici, (omertà, clientelismo, arbitrio e privatizzazione delle istituzioni pubbliche ecc.), non fossero stati intaccati dal nuovo Stato. Il quindicennio post-unitario fu travagliato da clamorose forme di insubordinazione sociale conosciute ed etichettate come brigantaggio e rivolte di vario tipo (si ricordi quella palermitana del 1866 detta del Sette e Mezzo), le quali erano anche inquadrabili in una sorta di negoziazione politica che le èlites siciliane (o sezioni consistenti di esse), fortemente intrise di "spirito di mafia" (come le bollò Gaetano Mosca), intavolarono con lo Stato. Tali dinamiche ed obiettivi si incontrarono, quantomeno in alcuni frangenti, con i disegni di stabilizzazione e normalizzazione del quadro politico da parte del governo centrale. Le misteriose sette di accoltellatori, che a Palermo e Provincia si resero responsabili di gravi episodi terroristici, sembrano costituire un modello di stragismo di Stato che vedeva affiancati apparati "deviati" (ma l’uso di tale aggettivo in casi analoghi è opinabile e alquanto controverso) delle pubbliche istituzioni con elementi eversivi e (probabilmente) della mafia(30). L’obiettivo era creare una situazione generale di grande caos sociale e politico in modo da poter colpevolizzare ed accusare di ciò le opposizioni del governo, determinando una svolta ultra-conservatrice ed illiberale(31). Ritornando all’analisi del Colonna di Cesarò, possiamo dire che la classe dei facinorosi (identificata allora con la mafia, ma ne costituiva solo una, sia pur importante, componente) continuò, invece, ad essere legata mani e piedi ai ceti dominanti, alle pubbliche istituzioni, agli apparati dello Stato. E questo fino ai nostri giorni, quando si è visto che gli affari ed i più importanti traffici criminali, il condizionamento mafioso della politica e dell’economia legale hanno visto schierati organicamente fianco a fianco (forse sarebbe meglio dire in un rapporto di organica interdipendenza), e in modo non casuale, strutture squisitamente criminali (come Cosa Nostra) con centri ed esponenti delle classi dirigenti e dominanti. Collante tra la struttura militare dei ceti altolocati, pezzi dello Stato, dell’economia, della finanza, della politica sono state organizzazioni e strutture di potere occulte. Tutto questo blocco organizzativo di relazioni e di interessi, apparentemente leciti ed apertamente illeciti, dalle eterogenee, permanenti complicità sociali (nei ceti medi e popolari), lo possiamo definire mafioso. Un modello che viene da lontano, come si è detto in queste pagine. Questa appare essere la reale essenza e natura del fenomeno in esame. Il sostenere che la classe dei facinorosi si fosse emancipata in modo significativo e peculiare dai poteri forti, come pure fecero Franchetti e Sonnino nella loro importante e lucida analisi, ha generato nei successivi paradigmi interpretativi sulla mafia, a livello giudiziario, politico, sociologico, degli equivoci, e, a nostro modesto avviso, delle fuorvianti analisi o approcci sul tema delle origini e sull’articolazione strutturale, storica ed attuale del fenomeno. Ha correttamente sostenuto Giovanna Fiume in merito alla presunta svolta in questione, ritenuta da alcuni alla base della nascita del fenomeno mafioso, riprendendo il famoso passo di Franchetti e Sonnino ("quella popolazione di facinorosi, che prima era al servizio dei baroni, diventò indipendente"): "relativamente indipendente, ci sembra, stante il peso politico che l’aristocrazia continuò a mantenere, e i legami che le bande conservarono con vecchi e nuovi protettori. I banditi agiscono per conto di qualcuno ed in subordine per proprio conto. (…) C’è sempre dietro un bandito imprendibile un aristocratico, un giudice, un sindaco, un capitano d’arme, e su questo le testimonianze sono circospette, ma nello stesso tempo esplicite"(32). L’antico modello organizzativo e relazionale di tipo criminale, presente in Età moderna, è nell’Ottocento (ed anche dopo) pienamente attivo ed operante. Da tempi lontani sino ai giorni nostri la tripartizione tra briganti (tra cui le antiche e moderne forme di pseudo–banditismo), manutengoli e complici di estrazione popolare e dei ceti medi (mafia), ed alti referenti sociali, politici ed istituzionali (gruppi caratterizzati da obiettivi politici ed economici legali ed illegali e da strategie atte ad imporre un controllo monopolistico del territorio parallelo all’ordinamento legale e costituzionale vigente) è stata attiva in Sicilia. Le oscillazioni storiche dei modelli e dei paradigmi giudiziari, mass mediologici (nei tempi più recenti), politici, sociologici sulla questione mafiosa, derivanti anche da contingenti interessi storici, ha portato a concentrare il focus analitico su una delle componenti problematiche del fenomeno mafioso. Ad esempio, nell’Ottocento e per parte del XIX secolo, come scritto, quest’ultima è stata da alcuni osservatori identificata col suo anello intermedio. Infatti, pure vari studiosi di allora misero in evidenza l’estrazione popolare, piccolo o medio borghese dei mafiosi. Nel suo "Che cos’è la mafia" Gaetano Mosca scriveva che i membri influenti delle cosche "sono quasi sempre dei piccoli proprietari, o piccoli affittuari di fondi rustici, curatoli ossia castaldi, sensali o piccoli commercianti di agrumi, di bestiame e di prodotti agricoli"(33). Al di sotto "la guida di costoro agisce un certo numero di giovinotti (…) di cui alcuni arditi di carattere ambizioso si mettono nella via del delitto". Questi ultimi non sono altro che i gregari che secondo Cutrera "alcune volte, anzi spesso, sono dei latitanti"(34). Ma c’erano anche "i pezzi grossi della provincia (i quali) danno aiuto e protezione ai briganti, perché essendo capi mafia, si accrescono la loro influenza morale"(35). Inoltre, questo "poliziotto–mafiologo" individuava pure nei guardiani, soprastanti, gabelloti e campieri la restante parte dell’universo mafioso. Sicuramente la sua era una visione più completa che gli derivava dalla propria esperienza professionale. Come si vede, anche allora diverse erano le opinioni in materia. Ma le sezioni più compromesse delle classi alte della società siciliana minimizzarono il problema strutturale ed organizzativo, asserendo che componenti di tali ambienti fossero esponenti dei ceti medio-bassi. Purtroppo, studiosi coevi e di epoche successive hanno dato credito a queste interpretazioni interessate e strumentali, cercando di dargli dignità scientifica. Oggi si è affermata una teoria sociologica sul problema sin troppo modellata sull’importante ed insostituibile, per gli squarci di verità che ha aperto, esperienza giudiziaria degli anni Ottanta che numerosi colpi ha inflitto al ramo delinquenzial-militare della mafia. Quindi, si è da più parti sottolineato il presunto predominio di una Cosa Nostra in grado di asservire lo Stato ed interi potentati economici. Una Cosa Nostra pronta a dettar legge allo Stato facendogli "la guerra", negli anni Novanta. I grossi traffici illeciti gestiti da questa struttura criminale avrebbero rovesciato i rapporti tra le componenti storiche del mondo mafioso e dei suoi alleati (almeno dagli anni Settanta in poi). In realtà, le cose sembrano stare diversamente dalle visioni interessate ed ancora una volta strumentali veicolate da mass media controllati dai poteri forti. Nella fase di transizione politica tra prima e seconda repubblica dal pool antimafia di Palermo e da altre procure d’Italia si apprendono notizie processuali ed investigative da cui il sociologo e gli esperti debbono trarre dei preziosi suggerimenti sullo stato del problema e sui suoi rapporti di forza interni. Così si apprende che ministri della Repubblica sarebbero stati organici a tali strutture, insieme a alti magistrati, massoni, grandi potentati economici, a esponenti dei servizi segreti. E’ il famoso terzo livello, di cui troppi si erano affrettati a negare l’esistenza, dopo una stagione in cui era anche politicamente produttivo gridarne ai quattro venti l’esistenza. E quella che emerge, sul piano processuale, sembra solo essere la punta dell’iceberg. Negli ultimi decenni si è spostato eccessivamente il focus analitico su uno dei corni del problema. Si sono puntati i riflettori principalmente sul ramo criminale, talvolta non considerando con la dovuta attenzione quei rami dei ceti medio-bassi che girano attorno (nelle varie inchieste giudiziarie) e proteggono i vari latitanti di mafia (opportunamente paragonati dallo storico Giuseppe Carlo Marino a moderni "briganti mafiosi urbanizzati", stabilendo un paragone temporale con i vari Rocca, Rinaldi, Di Pasquale, che imperversavano nel XIX secolo sul territorio madonita e siciliano, appoggiati e protetti da un ampio network di relazioni e complicità, nel XIX secolo). Un importante ruolo hanno in questo contesto le varie sezioni della borghesia mafiosa). Al di sopra di tutti si intravedono ancora una volta personaggi insospettabili e potentissimi. Quindi, stabilendo un parallelo con l’Ottocento, anche oggi abbiamo una sub-struttura delinquenziale o livello criminale intermedio, come allora. Si tratta degli eredi di quei campieri, soprastanti e gabelloti di una volta. Ne esplicano oggi la funzione di protezione e delinquenziale occulta. A molti è sembrato che la mafia si fosse radicalmente trasformata rispetto alle sue origini rurali e tradizionali. Si parla spesso di una gangsterizzazione dei suoi metodi. Il problema appare essere un altro. Si pongono eccessivamente, forse da taluno in modo interessato, le attenzioni sul livello degli esecutori dei crimini più efferati, che quasi inevitabilmente, spesso nei periodi di maggior conflittualità con gli apparati repressivi dello Stato, pagano con periodi di (più o meno) lunga latitanza (protetta).
Il circuito delle mediazioni e protezioni cade specie nei momenti di transizione politica. Così fu alla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, cosi è stato negli anni Venti e Novanta del Novecento, quando si è passati dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica. Molteplici sono le cronache giudiziarie che ci parlano, oltre che dei livelli più insospettabili e potenti collegati o inseriti all’interno delle associazioni mafiose (verso le quali però, con molta prudenza e reticenza, si esita spesso a definirli mafiosi, come invece sarebbe opportuno), di una "rete di protezione molto più ampia ed articolata" costituita da "gente in grado di assicurare la latitanza" agli uomini d’onore alla macchia e di condividerne i profitti illeciti. Lo storico non può far a meno di far correre la propria mente a quei gruppi di "recettatori, auxiliatori e fautori" che già in Età moderna facevano da "spalla" a latitanti e "banditi" e che partecipavano nascostamente a vari delitti o che semplicemente godevano dei proventi delittuosi senza sporcarsi direttamente le mani (gli stessi vantaggi valevano per i baroni di allora). Complicità popolari e tra i ceti medi che si rendono partecipi dei vantaggi di tali relazioni(è l’area di protettori e prestanome dei patrimoni nascosti di provenienza delittuosa). Questo accadeva con analoghe modalità, anche nel Diciannovesimo secolo (prima di allora). Inoltre, oggi, sulla scorta delle indicazioni forniteci dai più eclatanti fatti di cronaca giudiziaria, dietro i grandi delitti politici, i grandi affari delle grandi organizzazioni criminali di stampo mafioso si intravedono dei centri di potere occulto che farebbero capo a potentissime personalità operanti in vari campi e che non sembrano essere delle semplici agenzie di riciclaggio o di supporto della "politica" del grande crimine organizzato. Tutt’altro.
Bibliografia e fonti storiografiche sulla "Mafia ante litteram" o paleomafia
Il problema delle origini della mafia è stato trattato da varie angolazioni riassumibili, sintetizzabili in due principali orientamenti. Uno (dal carattere storiografico "contemporaneista" e di tipo sociologico) di questi lo connette e ricollega ai processi politici, sociali ed economici di instaurazione e costruzione dello Stato unitario (XIX secolo), mentre l’altra tesi, forse, minoritaria nel numero dei suoi fautori ma non per questo meno autorevole, ritiene, rileggendo in un ambito prospettico e cronologico più ampio la storia siciliana degli ultimi cinque-sei secoli, di inquadrarlo in fenomenologie storiche anteriori e precedenti al secolo del Positivismo. Un approccio analitico adeguato è quello che tende a distinguere il momento della nascita del fenomeno in esame dal momento in cui esso ha assunto la qualificazione e denominazione contemporanee di mafia, e cioè il "nome" dalla "cosa". In quest’ambito ci sembra che si possa rilevare un terzo orientamento, che tende a porsi in modo non pregiudiziale verso le origini preottocentesche della "piovra", rilevandone le manifestazioni definite "premafiose" che poi, in modo più compiuto e proprio, si sarebbero evolute in mafia nel XIX secolo(36). Al di là di disquisizioni semantiche e nominalistiche un dato ci appare in tutta la sua forza ed evidenza storiche: quel modello di relazioni politiche, sociali, economiche culturali dai connotati criminali che dal XIX secolo prende l’appellativo di mafioso presenta delle inequivocabili manifestazioni, dei chiari connotati e peculiarità nell’Evo moderno. E ciò appare essere la riprova della tesi o regola secondo la quale la "Historia non facit saltus", come del resto ha propugnato ed insegna la scuola braudeliana degli Annales. La tesi di chi sostiene l’esistenza del problema mafioso antecedente all’Età Contemporanea, pensiamo suffragata da chiari ed inoppugnabili dati e prove storiche, può inserirsi in quest’alveo storiografico. La mafia, o meglio ciò che si suole indicare con tale espressione, può essere considerata come un fenomeno di "lunga durata". Negli ultimi due decenni, dal generale e concorde coro scientifico che si è occupato del problema, alcune voci hanno fatto sentire la loro dissonanza circa il problema delle origini. O. Cancila in un suo scritto degli anni Ottanta, a commento di una serie di lettere redatte da magistrati del XVI secolo, ha sostenuto ed avanzato l’ipotesi che si sarebbe al cospetto di inequivocabili manifestazioni del tipo analizzato : "siamo in presenza di veri e propri clan mafiosi" imperanti in pieno Cinquecento e Seicento a dispetto del potere assoluto rivendicato dallo Stato composito spagnolo. Emblematico il sottotitolo del volume da lui pubblicato: "Quando la mafia non si chiamava mafia"(37). Anche Trasselli, a commento della innumerevole casistica di lotte e faide cittadine cinquecentesche da lui studiate, ricavate da una imponente documentazione archivistica e riportate nel volume sulla "esperienza storica siciliana tra il 1475 ed il 1525", non esita a sottolineare l’esistenza, in questa fase storica, di un fenomeno che nel XIX e XX secolo verrà definito mafioso, invitando, nemmeno in modo tanto velato, a leggere meno superficialmente il problema delle origini(38). Pure Vincenzo Titone anni prima aveva studiato il problema riferendone e rilevandone la presenza nella Sicilia di Ancien Règime (in particolare ha accostato l’organizzazione occulta del Sant’Uffizio al modello organizzativo ed operativo mafioso). Santi Correnti fissa nel ‘500 "l’atto ufficiale della mafia nel senso moderno della parola, cioè come collusione dell’attività delinquenziale col potere costituito"(39). Inoltre, nella sua Breve Storia di Palermo Nino Muccioli appare dare per scontato ciò che in realta non è così univoco e pacifico nell’ambito degli studi mafiologici: "Come è ben noto a tutti gli studiosi del fenomeno della mafia, la malavita organizzata in Sicilia nacque durante la dominazione spagnola nel Cinquecento"(40). Probabilmente la tesi dell’introduzione del modello mafioso da parte degli Spagnoli su suolo e società siciliani, risente di una antica polemica storiografica di stampo sicilianista ed anti-spagnolo, tesa ad addebitare i mali della Trinacria a fattori esterni piuttosto che ricercarne le cause anche o soprattutto in dinamiche storiche autoctone (con ciò non trascurando e non rinunciando però ad una lettura a 360 gradi dell’ eziogenesi del fenomeno). Ma nella Spagna moderna, comunque, gli storici hanno individuato componenti e manifestazioni di tipo mafioso o paramafioso. Bartolomè Benassar ha ravvisato nella picardìa sivigliana l’esistenza di organizzazioni che costituivano dei "modelli di gestione nel più puro stile mafioso". Stesse caratteristiche altri hanno individuato nelle Cardunas ispaniche. Lo storico Francesco Renda, pur privilegiando uno studio della mafia considerandone le manifestazioni storiche che vanno dall’Ottocento ai nostri giorni, si è comunque posto il problema delle origini collocando queste ultime in una età storica anteriore al XIX secolo: "Certamente la mafia come "cosa", cioè come mentalità, come comportamento individuale e anche come associazione criminale diretta a praticare la violenza organizzata, non nacque nel contesto della costruzione dello Stato nazionale"(41). Lo Storico ne individua le espressioni moderne, e cioè le "situazioni tipiche di protomafia", nel manutengolismo dei nobili in favore di banditi e malfattori, nelle compagnie d’armi dalle ambigue relazioni e composizione. Denis Mack Smith fa altrettanto, e pone chiaramente le origini della mafia quantomeno in età moderna(42). Francesco Paolo Castiglione opportunamente ricorda che, nel contesto di un articolo pubblicato dalla rivista Segno, il problema mafioso non può essere letto in termini riduttivi e depistanti, riferendolo semplicemente ad una congrega o "gruppo di facinorosi semianalfabeti "in grado di mettere in ginocchio lo Stato, ma ben altro. Si tratterebbe di un blocco o modello sociale, dai caratteri illegali in grado di essere contemporaneamente Stato ed Antistato, riferibile principalmente alle èlites siciliane. Modello sociale straordinariamente costante nel tempo (anche Castiglione ne rileva la presenza sin dal Cinquecento) che ha avuto al suo servizio ed è stato rappresentato dai bravacci baronali, dalle maestranze cittadine, dalle bande di briganti, ecc(43). Tessitore ha scritto: "La nascita del fenomeno va, comunque, correttamente collocata in epoca di gran lunga anteriore al 1860, annidandosene i germi, in maniera abbastanza nitida, nelle pieghe più remote della storia della civiltà e del costume siciliano: quantomeno intorno al XVI e XVII secolo, quando tracce di pratiche mafiose sono già ampiamente riconoscibili nell’isola". Lo Studioso, fra l’altro, illustra i coevi ed ambigui, illegali rapporti di collusione tra baroni ed i "malfattori organizzati", i fenomeni di arricchimento ed ascesa sociale sostanzialmente inalterati tra 600 e 800 (comportanti anche un consueto e criminale uso spregiudicato ed impunito della forza), la complessità di certe bande che, costituite da un nucleo centrale ai margini e della società e operanti nella piena illegalità, erano sostenute da uno stuolo di soggetti ("satelliti") che si prestavano ad essere nell’ombra complici dei reati "per poi rientrare ove non scoperti ed individuati, nella legalità"(44). Questi numerosi studi ci dicono che sul tema delle origini, abbiamo i seguenti indirizzi o scuole di pensiero che potremmo ribattezzare: 1) "sociologico-contemporaneista", (che vede nella mafia un fenomeno nato nel XIX secolo, frutto di una modernizzazione distorta e di specifici processi politico-economici del tempo); 2) "storico- modernista" (quello che anticipa all’età moderna la genesi del problema e costituito principalmente da storici dell’Età moderna o, comunque, da studiosi che si sono anche occupati di quest’ambito cronologico). Poi c’è una terza linea interpretativa mediatrice tra i due orientamenti. È i rischi interpretativi di criteri e posizioni analitiche connessi al tema delle origini possono essere costituiti dall’angolazione prospettica da cui esso viene affrontato. Questa intima, rappresentata dal curriculum e dagli interessi, obiettivi culturali e di ricerca propri di ogni studioso, può talora incidere sugli esiti dell’indagine svolta, portando alla sottovalutazione di importanti aspetti. Per cui il sociologo, il modernista e l’esperto di storia contemporanea, a nostro modesto avviso, dovrebbero sempre porsi in chiave ed atteggiamenti critici e dialettici verso ambiti disciplinari non propri. Per cui, ad esempio, il contemporaneista dovrebbe chiedersi ed effettuare una più attenta indagine fenomenologica, anche sconfinando nello studio accurato di epoche non rientranti nel proprio background ed ambito disciplinari, o comunque far tesoro delle indicazioni fornite dagli specialisti. Il modernista potrebbe in alcuni casi non fermarsi agli aspetti più certi ed evidenti del problema studiato (la cosa), ma scandagliarlo più in profondità, approfittando di una ricca e varia documentazione storica che giace nei nostri archivi e che permette di affrontare nella sua poliedricità il fenomeno in questione.
In questo modo è possibile sviscerarne analiticamente l’evoluzione, le sue permanenze storiche, strutturali e peculiari fino ad arrivare alla presunta o pseudo "data" di nascita dello stesso, fissata, dalla imperante produzione mafiologica degli ultimi quarant’anni, nell’Ottocento. Gli archivi notarili dell’età moderna consentono di studiarlo sotto un profilo socio-economico, relazionale e (perché no?) organizzativo, associativo (in particolar modo si pensi alla documentazione storica relativa ad antiche confraternite). Le fonti istituzionali centrali e periferiche del Viceregno (politico-burocratiche), quelle giudiziarie (come gli atti delle varie Corti capitaniali cittadine), consentono di effettuare una ricognizione giuridica, criminologica, politica di quel problema che poi verrà chiamato mafia. Da queste analisi possono emergere (come in parte ci suggeriscono i pochi studi condotti su questo piano) risultati ed indicazioni che mettano in rilievo la continuità storica del fenomeno mafioso tra l’Età moderna e quella contemporanea. Un approccio o punto di partenza analitico serio ci pare possa essere costituito dall’individuazione di come certe caratteristiche e peculiarità fra loro contestualmente intrecciate e non prese a se stanti o operanti in modo separato (omertà, manutengolismo popolare e delle élitès verso banditi, criminali di ogni risma, particolari forme di uso della violenza -come quelle di tipo associativo- che preludono a scalate e modalità di affermazione, socio-economica che si muovono tra liceità ed illegalità, ecc.), e cioè prodotte, legate e riferibili a specifiche associazioni o gruppi sociali e di potere, siano uscite da un alveo di legittimità o legalità (come ad esempio, nell’età medievale dominata dalla crisi dello Stato feudale, dal netto carattere policentrico in materia di titolarità del potere, e dal prepotere delle fazioni baronali) per entrare in un ambito di illegalità, criminale fissato, definito e stabilito da un’autorità politico-territoriale e giuridica superiore che tende ad avocare, in termini tendenzialmente assoluti (ma non senza contraddizioni ed arretramenti), titolarità e legittimità del potere contro i particolarismi di casta, locali e le istanze tradizionali universalistiche (rappresentate tradizionalmente da Impero e Papato).
In altri termini, si propone di far risalire la genesi ufficiale del fenomeno mafioso mettendola in relazione con l’affermazione ed il consolidamento di processi di centralizzazione del potere che condurranno all’affermazione dello Stato assoluto e moderno. Questa prospettiva è stata già adottata in modo autorevole nel corso di studi scientifici sul problema del banditismo, brigantaggio e criminalità organizzata nell’Evo moderno. Questi fenomeni, scrive Aymard, acquistano senso soltanto in rapporto allo Stato del quale contestano l’autorità e ne testimoniano le esitazioni, gli insuccessi sulla via della conduzione o del tentativo di imporre il gioco in relazione alla materia fiscale, giudiziaria, militare(45). Ed altresì, in tema di rivendicazione, almeno di principio, del monopolio assoluto della forza. Modelli di arricchimento, relazioni sociali di, determinazione di equilibri politici, dotate di proprie regole e norme (nel caso particolare, non scritte), condotte violente e prevaricatrici ecc. diventano illegali, criminali e costituiscono un problema oltrechè giudiziario anche di interesse scientifico, allorquando si determina una discrasia, un conflitto con centri di potere, politico-giuridici che si pongono non in posizione orizzontale(si pensi alla fase storica siciliana dell’anarchia feudale baronale del Trecento) nei loro confronti ma in un rapporto di forza di tipo gerarchico, superiore, verticale, verticistico, che tende ad incarnare il bonnum commune ed a presentarsi come garante della sicurezza di tutti i consociati. Prendiamo a prestito, in tale contesto la frase di Franco Cardini, usata nel corso di una sua relazione sulla criminalità medievale, "il fuorilegge non è tale se non si confronta di continuo con la legge che infrange". Ed aggiungiamo noi, non possiamo avere un fenomeno che possiamo propriamente definire mafioso se non c’è un criterio giuridico, legale superiore che lo sanzioni penalmente. Le prammatiche siciliane cinque- secentesche contro la criminalità ed i suoi intrecci e legami politici, istituzionali, sociali, ed i conseguenti interventi repressivi dello od in nome dello Stato ne costituiscono la riprova storica (anche in tema di rapporti di forza sotto il profilo giuridico-istituzionale).
Conclusioni
Non è storicamente condivisibile l’obiezione di chi sostiene che il problema dell’esistenza del fenomeno mafioso non si porrebbe in età moderna perché ai baroni era stato delegato il potere di mero e misto imperio, per cui bignorebbe considerarli padroni e signori assoluti nei loro feudi. Conseguenza di ciò: tutto sarebbe stato consentito loro ed agli sgherri che lavoravano alle loro dipendenze. Questo era vero finchè non fu ripristanata l’autorità dello Stato nel Quattrocento. Dopodiché principio e fonte originaria del potere giudiziario locale, sul piano formale, era e restava il sovrano che poteva in qualsiasi momento riprendersi ciò che aveva concesso. Tale prerogativa doveva essere esercitata, in ultima analisi, per conto del re e, comunque, all’interno dell’impalcatura organizzativa dello Stato (rappresentato ed espresso in Sicilia dalla struttura ed ordinamento dell’antico "Regnum"). Così certe condotte non erano ammissibili sul piano giuridico nemmeno per i baroni. Il Principe di Camporeale, protettore del bandito soprannominato "Baiocco", fu carcerato con la seguente motivazione addotta dal Vicerè Maffei (1715): "non ho voluto ammettergli alcuna scusa con dirgli che se havesse dato gli ordini opportuni alli suoi ufficiali di arrestare questa sorta di gente quando si ricoverano nelle sue terre non mi haverebbero obbligato a domandarne conto a lui…"(46). Questo passo ci chiarisce la subalternità dei baroni e delle Corti giudiziarie locali, presenti nelle loro terre, al potere regio. Esse erano (o dovevano essere sulla base dei principi costituzionali del "Regnum"), in ultima analisi, un vero e proprio "instrumentum regni" del sovrano e non del ceto baronale. Lo Stato composito spagnolo possedette anche in Sicilia legittimità ed autorità politico-giuridica, teorica e concreta, nel reprimere episodi collusivi e di criminalità organizzata (poi il perché in pratica le cose spesso stessero diversamente, era da ricollegare al gioco mafioso delle protezioni messo in atto dalle élitès siciliane, a sua volta strettamente intrecciato alla corruzione e corruttibilità istituzionali, ed alle contingenti convenienze politiche delle supreme autorità spagnole e borboniche). Ne sapeva qualcosa il Principe di Mezzoiuso: "Il Principe di Mezzoiuso havendo osato ricoverare e soffrire in alcuno dei suoi feudi pubblici grassatori, ladri e simil gente facinorosa contro il servizio pubblico et ordini reali (…) S.M (lo, NdA) ha riputato immeritevole delle grazie riportate dalla di lui speciale benignità e però ha stimato che la Deputazione al medesimo concessa resti di niun valore…"(47). Cosi, in una lettera inviata alla Gran Corte, veniva scritto dal ST. Thomas stretto collaboratore di Vittorio Amedeo. Ciò era sancito anche sulla base delle prammatiche del Regno anteriori al dominio dei Savoia in Sicilia. È interessante rilevare, nel passo ora riportato, la subalternità gerarchica delle Corte capitaniale baronale nei confronti dell’autorità centrale, specie in materia di reati e crimini delinquenziali e violenti. L’esistenza di centri di potere informali occulti e criminali (costituiti da vasti aggregati transcetuali ed operanti all’interno ed all’esterno delle istituzioni pubbliche), che sostituivano ai metodi codificati e legali ufficialmente vigenti (rappresentati dalle prammatiche, dai capitoli, dalle consuetudini locali e generali ecc.), basati sul (tendenziale) monopolio della forza statuale e, comunque, su vie pacifiche di mediazione e composizione dei contrasti e conflitti sociali, su uso arbitrario, intimidatorio ed effettivo della violenza privata (attraverso tecniche e modalità specifiche tali da costituire un ordinamento paragiuridico o giuridico non scritto, un paradigma culturale disciplinanti i comportamenti collettivi) al fine di controllare le risorse ed i luoghi istituzionali che ne regolavano l’allocazione tra gruppi e componenti sociali, costituiva un modello parallelo all’ordinamento e leggi statuali dell’età moderna che si conserverà e sopravviverà fino ai nostri giorni.